mercoledì 28 aprile 2010

La libertà è partecipazione

Da una discussione sulla libertà, o se sono libero quando faccio quello che mi pare o quando posso scegliere.

Da quello che ci dicevamo ieri sera, la libertà è la possibilità di auto-determinarsi: si è liberi nel momento in cui si può decidere su se stessi.
Una importante difficoltà sovviene qualora ci interroghiamo sull'atto deliberativo che qualifica la nostra libertà; cioè se siamo liberi in quanto vogliamo qualcosa o se siamo liberi in quanto, pur volendo qualcosa, possiamo guidare quel volere e compiere una scelta. I due atti paiono simili: sono sempre io che desidero qualcosa e c'è un oggetto del mio desiderio; nel primo caso, però, la mia volontà è "indifferenziata", cioè non subisce alcuna specificazione da parte della mia ragione, ma viene attratta dall'oggetto esterno. E' volontà pura dell'oggetto. Nel secondo caso la volontà è determinata dall'intelletto che le propone l'oggetto così come lo conosce, rendendola davvero libera.
Nel primo caso, infatti, la volontà, che noi identifichiamo immediatamente con libertà (se voglio, sono libero), è succube di un oggetto esteriore: individuando in esso il limite a cui si tende, lo trasforma in idolo, rendendoci schiavi. Ne deriva che la nostra libertà, che ci è data nella possibilità di scegliere, non si realizza nella condizione del volere in sé: non è questo il fine delle nostre azioni. Non siamo liberi solo perché vogliamo, perché, se così fosse, saremmo in una ricerca insaziabile e senza posa: non godremmo mai di nulla. La libertà del "mi va" è una falsa libertà, ci rende schiavi perché non ci fa felici.

Siamo liberi nella possibilità di scegliere. Ma lo siamo se ci accorgiamo che il nostro volere deve essere guidato affinché non cada in errore e non ci renda schiavi. Sono libero nell'atto della scelta, nella capacità che ho di soppesare e calcolare le differenti opzioni. In questo senso la nostra libertà è necessitata e limitata dalle nostre conoscenze, o, viceversa, noi siamo liberi solo nella capacità costruttiva del pensiero. Solo in quanto vogliamo, sono gli istinti ad essere resi liberi, ma noi siamo guidati da quelli e tendiamo a fare di ogni oggetto esterno un mezzo per la nostra felicità. Ritenere, al contrario, che siamo liberi nel momento in cui possiamo specificare attraverso un pensiero ordinato i vincoli del volere per calcolarne i limiti e soppesarne le differenti scelte, ci rende liberi in quanto fautori della nostra libertà. Nel primo caso siamo guidati e vaghiamo ad occhi chiusi, nel secondo apriamo gli occhi e, responsabilmente, consideriamo le condizioni di ogni nostro volere.
Questa libertà ci realizza, perché ci rende possibile, attraverso la conoscenza del Bene e del nostro bene legato a quello, realizzarci completamente; va da sé che ci sia richiesto di essere intelligenti: se vogliamo essere liberi, dobbiamo avere gli strumenti per valutare le scelte. Sennò si cade in errori peggiori rispetto a quando ci facevamo guidare dagli altri e brancolavamo nel buio. E', però, più entusiasmante, perché ci offre la possibilità di costruire la nostra vita... Sapere aude!

Così l'essere liberi non è fare qualsiasi cosa ci passi per la testa (come si suol dire), ma riflettere bene su ciò che ci capita: scegliere il bene senza sapere perché lo si sceglie non è un merito, né conduce ad una buona vita: il fine non giustifica i mezzi e ci è chiesto di conoscere i mezzi e saperli valutare. La libertà è, così, condizione del nostro pensiero e del nostro ragionar bene; ed è condizionata dal nostro vivere sociale, a cui siamo portati dalla nostra ragione. E questo si riassume nell'aforisma, "la mia libertà termina dove inizia la libertà dell'altro", o la mia libertà si esaurisce e si completa nella libertà dell'altro.
I limiti (politici) alla nostra libertà di espressione valgono per il motivo attraverso cui abbiamo definito cos'è libertà (J.S. Mill ne scrisse un saggio molto rilevante in cui vi espone la ragione dei limiti: c'è un limite alla legittima ingerenza dell'opinione collettiva sull'indipendenza individuale ... il solo e unico fine che autorizzi l'umanità ad interferire con la libertà di azione di uno qualunque dei suoi membri, è quello di proteggere se stessa).

(e vi evito di mettervi le meravigliose lettere di Descartes in merito...)

venerdì 23 aprile 2010

Barbiana, arriviamo?

Faremo conoscenza con DON MILANI, un uomo testimone di temi di grande attualità oggi: le istanze di giustizia...
Pace
Scuola: “agli svogliati basta dare uno scopo”
rapporto con i poveri
politica: “… insegnando imparavo tante cose. Per esempio ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è l’avarizia…”
obbedienza: “...non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. …”
Chiesa: un rapporto di obbedienza, di amore, ma anche di coraggiosa testimonianza.



giovedì 22 aprile 2010

Libertà: cos'è?

Da l'L'Antologia di Spoon River, messa in musica da De André (incroci).

Narciso e Boccadoro

Due estratti di Narciso e Boccadoro, che Chiara ci invita a leggere:

Boccadoro, immobile, ossevava l'opera sua. La contemplazione, cominciata come un'adorazione al monumento della sua prima giovinezza e della sua amicizia, finì con una tempesta di ansie e di pensieri gravi. Ecco lì la sua opera: il bel discepolo* sarebbe rimasto e la sua fioritura delicata non avrebbe mai avuto fine. Egli invece, che l'aveva creato, doveva ormai prender congedo dalla propria opera, già l'indomani essa non gli apparterrebbe più, non aspetterebbe più le sue mani, non crescerebbe e fiorirebbe più sotto di esse, non sarebbe più per lui rifugio, conforto e senso della vita. Egli rimaneva vuoto. E gli pareva che il meglio sarebbe stato prender congedo quel giorno stesso non solo dal suo Giovanni, ma anche dal maestro, dalla città e dall'arte. Egli non aveva più nulla da fare in quel luogo; non c'erano immagini nella sua anima, che potesse rappresentare.

"Ma quale fu per te il frutto, il significato dell'arte?"
"Fu il superamento della caducità. Vidi che della farsa e della danza macabra della vita qualcosa rimaneva e durava: le opere d'arte. Certo anch'esse un giorno o l'altro passano,bruciano o si rovinano o vengono distrutte. Ma ad ogni modo durano parecchie generazioni e formano al di là del momento un quieto regno d'immagini e di cose sacre. Collaborare a questo mi pare un bene e un conforto, perchè è quasi un rendere eterno ciò ch'è transitorio"
"Questo mi piace molto, Boccadoro. [...] Io credo però che con la tua definizione non hai esaurito ciò che vi è di meraviglioso nell'arte. Credo che l'arte non consista solo nello strappare alla morte e portare a più lunga durata, con la pietra, col legno e coi colori, qualcosa che esiste ma è mortale. Io ho veduto più di un'opera d'arte, certi santi e certe Madonne, che non credo siano solo fedeli riproduzioni di un singolo essere umano, vissuto un giorno, di cui l'artista ha conservato le forme e i colori"
"Hai ragione! [...] L'immagine originaria di una buona opera d'arte non è una figure reale, viva, quantunque questa possa esserne l'occasione determinante. L'immagine originaria non è carne e sangue, è spirituale. E' un'immagine che ha la sua dimora nell'anima dell'artista."


*la statua che raffigura il discepolo Giovanni, a cui Boccadoro ha dato le sembianze di Narciso, il suo amico