giovedì 30 ottobre 2008

Sul goal di Gilardino


Tratto dall'articolo di Michele Serra, Perché il calcio festeggia il gol fatto con la mano.

La mano di Alberto Gilardino non è la mano di Dio, ma non è nemmeno la mano del Diavolo: due modeste giornate di squalifica sono una pena di routine, commisurata a un "reato ambientale" (quello di carente lealtà sportiva) che di straordinario non ha proprio niente, per quanto è diffuso e soprattutto per quanto è accettato.
Ma il giudice sportivo - come molti giudici di questo paese - non è l' interprete più applaudito della "volontà popolare". Nelle cose del calcio e non solamente in quelle, l'idea che l'onesto sia un sognatore, e il furbo un pragmatico, ha le ali ai piedi. Lo so, siamo nel bel mezzo del luogo comune sugli italiani eticamente disinvolti, ma spesso i luoghi comuni germinano da sconsolanti evidenze: quanti tifosi, di qualunque squadra, sopporterebbero di perdere una partita perché uno dei loro eroi in maglietta confessa all' arbitro che il gol era irregolare? Chi salverebbe l'eventuale onesto dalle accuse di autolesionismo, di stupido eccesso di zelo, se in ogni piazza d' Italia c' è un modo diverso per dire la stessa cosa: pirla, ciula, fesso, mona, bischero.
La maldisposta opinione pubblica europea considera i calciatori italiani i più simulatori del pianeta, magari alla pari con altre anime latine come i sudamericani. Ruzzoloni recitati in area di rigore, gomitate di poco conto trasformate in colpi mortali, l'arbitro visto come un avversario da raggirare e mai come un' autorità da aiutare. Lo sputo di Totti e la testata di Materazzi, ci piaccia oppure no, sono in copertina nella chanson de geste del calcio quadricampione del mondo.
Il caso Gilardino (che durerà tanto quanto le due giornate di squalifica, cioè un batter di ciglia) non arriva dallo speciale malanimo di un atleta del quale tutti parlano bene, ma dall'assuefazione, dall'abitudine, dal "così fan tutti" che è da sempre, in ogni epoca e ad ogni latitudine, l'arma letale contro ogni esame di coscienza. Dall'idea che niente di così grave, in fondo, ci sia nel darsi un "aiutino", ghermire al volo l'attimo giusto per sgambettare la sorte, farla franca perché l'arbitro e i suoi assistenti non hanno visto, e l'unico testimone della scorrettezza commessa sei tu, il suo autore. La prova televisiva, a partita chiusa, e le domande insistenti dei cronisti, e il dibattito quasi sempre nervoso, quasi mai sereno, sono una conseguenza sgradevole ma arrivano solo a risultato acquisito, dopo la doccia, magari insieme al rincrescimento. Ma in campo, dove quello che si vede è l'istinto, è lo spirito profondo, la verità agonistica è un' altra: è la foga che porta a sorvolare sulle proprie colpe e a ingigantire a dismisura quelle degli altri, come nel gesto (sportivamente odioso, e mai punito) di invitare l'arbitro ad ammonire l'avversario. Eppure l'agonismo, per esempio nel calcio britannico dove ci si spolmona fino alla sincope, è anche altrove ottenebrante, almeno in potenza. Ma quasi mai sfocia nel colpo di mano, nella furbata, neanche la furbata istintiva, diciamo preterintenzionale come quella di Gilardino.
Grazie al satellite è diventato più semplice seguire i campionati stranieri e fare i paragoni. Arbitrare, lassù, è più semplice, le botte e i colpi bassi ci sono, ma manca quel contorno melodrammatico e attoriale che qui da noi spesso si prende la scena per intero. Manca quel tocco di leggera isteria, di fanatismo di fazione che da noi complica maledettamente le cose (vedi anche la politica, che a proposito di slealtà nei confronti dell' avversario è una palestra insuperabile).
Il buon Gilardino è sicuramente convinto della venialità del suo peccato - ammesso che lo consideri tale - e il calcio nel suo insieme pratica il vittimismo e l'autoassoluzione come il solo schema tattico che mette tutti d' accordo. Luciano Moggi, appena quattro anni dopo uno scandalo che pareva far sprofondare agli inferi il calcio tutto intero, gode già di una discreta fama di capro espiatorio e di perseguitato: molti ritengono che fosse solo un furbo in eccesso. Figuratevi che scandalo può essere un gol di mano.

giovedì 23 ottobre 2008

Ascolto - 2: fame di considerazione

Dall'incontro di martedì, una riflessione sull'ascolto


Plutarco, L'arte di ascoltare

Penso comunque che non ti dispiacerà ascoltare qualche preliminare osservazione sul senso dell'udito, che è esposto più di ogni altro alle passioni, dato che non c'è niente che si veda, si gusti o si tocchi, che produca sconvolgimenti, turbamenti o sbigottimenti paragonabili a quelli che afferrano l'anima quando l'udito è investito da certi frastuoni, strepiti o rimbombi. Ma a ben guardare esso ha più legami con la ragione che con la passione, perché se è vero che molte sono le zone e le parti del corpo che offrono al vizio una via d'accesso per cui arriva ad attaccarsi all'anima, per la virtù l'unica presa è data invece dalle orecchie dei giovani, sempreché siano pure e tenute fin dall'inizio al riparo dai guasti dell'adulazione e dal contagio di discorsi cattivi.

È evidente che un giovane che fosse tenuto lontano da qualunque occasione di ascolto e non assaporasse nessuna parola, non solo rimarrebbe completamente sterile e non potrebbe germogliare verso la virtù, ma rischierebbe anche di essere traviato verso il vizio, facendo proliferare molte piante selvatiche dalla sua anima, quasi fosse un terreno non smosso ed incolto.

Dal momento dunque che l'ascolto comporta per i giovani un grande profitto ma un non minore pericolo, credo sia bene riflettere continuamente, con se stessi e con altri, su questo tema. I più invece, a quanto ci è dato vedere, sbagliano, perché si esercitano nell'arte di dire prima di essersi impratichiti in quella di ascoltare, e pensano che per pronunciare un discorso ci sia bisogno di studio e di esercizio, ma che dall'ascolto, invece, possa trarre profitto anche chi vi s'accosta in modo improvvisato. Se è vero che chi gioca a palla impara contemporaneamente a lanciarla e riceverla, nell'uso della parola, invece, il saperla accogliere bene precede il pronunciarla, allo stesso modo in cui concepimento e gravidanza vengono prima del parto.

Il silenzio, dunque, è ornamento sicuro per un giovane in ogni circostanza, ma lo è in modo particolare quando, ascoltando un altro, evita di agitarsi o di abbaiare ad ogni sua affermazione, e anche se il discorso non gli è troppo gradito, pazienta ed attende che chi sta disertando sia arrivato alla conclusione; chi si mette subito a controbattere finisce per non ascoltare e non essere ascoltato, e interrompendo il discorso di un altro rimedia una brutta figura. Se invece ha preso l'abitudine di ascoltare in modo controllato e rispettoso, riesce a recepire e a far suo un discorso utile e sa discernere meglio e smascherare l'inutilità o falsità di un altro, e per di più dà di sé l'immagine di una persona che ama la verità e non le dispute, ed è aliena dall'essere avventata o polemica.
Ascolto è anche critica dell'altro, senza che questa sia mossa dall'invidia o semplicemente sterile. Non è difficile muovere obiezioni al discorso pronunciato da altri, anzi è quanto mai facile; ben più faticoso, invece, è contrapporne uno migliore. Per costruirne uno migliore occorre però essere in grado di ascoltare e porsi in “relazione” con l'altro.
Le persone sveglie e attente sanno trarre beneficio da chi parla non solo quando ha successo ma anche quando fallisce, perché, la pochezza concettuale, la vacuità espressiva, il portamento volgare, la smania, non disgiunta da goffo compiacimento, di consenso e gli altri consimili difetti ci appaiono con più evidenza negli altri quando ascoltiamo che in noi stessi quando parliamo. Dobbiamo perciò trasferire il giudizio da chi parla a noi stessi, valutando se anche noi non cadiamo inconsciamente in qualche errore del genere. Non c'è cosa al mondo più facile di criticare il prossimo, ma è atteggiamento inutile e vano se non ci porta a correggere o prevenire analoghi errori. Di fronte a chi sbaglia non dobbiamo esitare a ripetere in continuazione a noi stessi il detto di Platone: «Sono forse anch'io così?». Come negli occhi di chi ci sta vicino vediamo riflettersi i nostri, così dobbiamo ravvisare i nostri discorsi in quelli degli altri, per evitare di disprezzarli con eccessiva durezza e per essere noi stessi più sorvegliati quando arriva il nostro turno di parlare.

Quando si tratta di una discussione dobbiamo lasciar perdere la reputazione di chi parla e valutare esclusivamente il valore intrinseco delle sue argomentazioni, senza curarci degli applausi che riscuote, ma cercando di capire il senso del suo discorso e, confrontandolo con la realtà, avvederci se esso sia accettabile, e quindi apprezzabile o meno.
Bisogna eliminare dallo stile ogni eccesso e vacuità, mirando esclusivamente al frutto e prendendo a modello le api e non le tessitrici di ghirlande, perché queste, preoccupandosi solo delle fronde fiorite e profumate, intrecciano e intessono una composizione soave ma effimera e infruttuosa, mentre le api mirano sì al colore dei fiori, ma ne colgono l'essenza per la loro opera.
Questo non significa che non sia importante lo stile, che anzi è spesso il segno di una profonda riflessione da parte dell'oratore, ma esso deve solamente facilitare la comprensione di ciò che viene pronunciato, senza essere la prima cosa a cui fare attenzione: è uno strumento, non un contenuto. Al contrario si produrrebbe un deserto di intelletto e di buoni pensieri, molta pedanteria formale e verbosità, che non si avvicina alla vita, ma che condurrebbe il soggetto ad un deserto.

L'ascolto è centrale anche nel porre una domanda ad un oratore, per non essere tacciato di livore occorre capire le argomentazioni di chi parla, ascoltando tutto il suo discorso, senza esaurire la propria attenzione ad una semplice frase. La cautela e il senso della misura non stanno nello strozzarsi in gola un appunto che si potrebbe rivolgere, ma nell'ascoltare e nel capire le ragioni dapprima, per poi saper ribattere. In questo caso, la frase che si rivolge non è figlia solo delle riflessioni personali, ma, a seconda di chi ci si trovi di fronte, può prendere in considerazione anche quello che abbiamo appena ascoltato, non solo in modo polemico, ma per rivedere le proprie idee e crescere.

Ecco che abbiamo visto come non è solo chi parla ad avere dei doveri, sia verso l'uditorio che verso se stesso (mica potrà cancellare il proprio pensiero su cui magari ha riflettuto per anni, per soddisfare i desideri contrari degli ascoltatori), ma anche chi ascolta ha il dovere di farlo in modo opportuno. Senza però lanciarsi in una valutazione dei differenti diritti e doveri, possiamo notare che ogni dialogo si fonda sul rispetto dell'altro, sul riconoscimento dell'uguaglianza tra ascoltatore ed oratore, tra chi parla e chi ascolta.

Per concludere, ecco alcune norme di comportamento, per così dire generali e comuni, da seguire sempre in ogni ascolto, anche in presenza di un'esposizione completamente fallita: stare seduti a busto eretto, senza pose rilassate o scomposte; lo sguardo dev'essere fisso su chi sta parlando, con un atteggiamento di viva attenzione; l'espressione del volto dev'essere neutra e non lasciar trasparire non solo arroganza o insofferenza ma persino altri pensieri e occupazioni. In ogni opera d'arte, si sa la bellezza deriva, per così dire, da molteplici fattori che per una consonanza misurata e armonica pervengono a una proporzionata unita, mentre basta una semplice mancanza o un'aggiunta fuori posto per dare subito vita alla bruttezza: analogamente, quando si ascolta, non solo sono sconvenienti l'arroganza di una fronte corrugata, la noia dipinta sul viso, lo sguardo che vaga qua e là, la posizione scomposta del corpo e le gambe accavallate, ma sono da censurare, e richiedono molta circospezione, persino un cenno o un bisbiglio con un altro, un sorriso, gli sbadigli sonnacchiosi, lo sguardo fisso a terra e qualunque altro atteggiamento del genere.

giovedì 16 ottobre 2008

L'ascolto

Se vogliamo comunicare, è indispensabile riuscire ad ascoltarci, lasciar parlare gli altri e cercare di capire cosa intendono dirci, con l'umiltà di non ritenere solo le nostre idee le ragioni migliori, le uniche che abbiano diritto di essere pronunciate. Silentium est aurum è un ottimo motto, che ci ricorda come per dire qualcosa che abbia un qualche valore, occorre prima fare silenzio, non per cercare le cose dentro di sé (a meno che uno non speri che le idee gli nascano come Minerva dalla testa di Giove), ma per riflettere, capendo ciò che si sta per dire.
Ascolto non è solo udire, è qualcosa di più, dato dall'insieme di recezioni sensibili.

Per noi questo significa anche l'ascolto della Rivelazione. E' questo uno dei problemi più difficili, forse il primo di chi vuole credere (e forse anche la prima obiezione razionale di chi invece non crede). Trascina in gioco quelli che sono i nostri dubbi, le nostre incertezze (e per qualcuno anche l'insieme di debolezze umane che cerchiamo di superare nascondendo la realtà), perché ci pone di fronte ad un qualcosa che facciamo fatica a capire o che vorremmo capire come pare a noi, senza l'intralcio della Chiesa.
Eppure la rivelazione è veramente il momento principale, quello che dà valore alle nostre ricerche: è un'intuizione di un qualcosa che ascoltiamo e di una Persona che incontriamo che dà contenuto alla Rivelazione.
Sono due le caratteristiche che danno senso a questo ascolto e lo realizzano, da un lato che la Parola giunge alle nostre orecchie per mezzo della Grazia divina, dall'altro che a questa Grazia deve corrispondere una nostra buona disposizione: non si può incontrare qualcuno se non lo si vuole. Ed è più complesso se l'incontro non avviene con una persona in carne ed ossa, ma attraverso una parola.
Occorre quindi uno sforzo personale, che vada al di là della incapacità di comprendere, che vada al di là delle debolezze umane, che sia una quête che abbia la forza di non esaurirsi alla prima incertezza.
Tutto questo ha anche una conseguenza ben precisa, quella cioè che la conoscenza di Dio non avverrà solamente per una via razionale, ma sarà data dall'incontro con gli altri uomini, dall'incontro di Dio nell'uomo. Il significato dell'essere cristiani consiste nella vita insieme e interrogarsi attorno a questo non ha senso se fatto nel buio di camera propria, dove posso solo riflettere sull'incontro di comunione che ho avuto con Gesù e con gli altri.
L'incontro con Dio avviene nella nostra vita, avviene anche se non lo vogliamo (per grazia), ma ce ne possiamo accorgere se ne siamo disposti. Di solito si dice: se abbiamo un cuore aperto, non perché chi non lo incontra sia "cattivo", ma perché questi chiude uno spazio della sua vita, pone un rifiuto (i motivi sono vari e personali); crescere vuol dire accorgersi di questo luogo interiore che necessità di essere ascoltato e di ascoltare qualcosa per trovare un senso, e accorgersi che vi è qualcuno la cui voce è più significativa, il cui ascolto dipende dal mio volere. Non perché questo sia una cosa da bigotti bacucchi, al contrario, è la capacità di prendere in mano la propria vita e realizzare le proprie capacità/talenti.
La Rivelazione che ascoltiamo e che siamo chiamati a vivere ci mostra la via della Salvezza, la via della Vita (non la via del Dolore). Siamo con-vocati all'ascolto, affinché ascoltando crediamo, credendo speriamo, sperando possiamo amare. E tutto, se lo vogliamo!

mercoledì 8 ottobre 2008

Jack Frusciante è uscito dal gruppo (e poi è rientrato)

Non so se ritenere Jack Frusciante è uscito dal gruppo (recensione) uno dei grandi libri dell'adolescenza, di sicuro solletica le ambizioni di ogni ragazzo (e forse anche di ogni persona in generale), che sente l'oppressione di certi confini attorno a sé. Penso che sia la capacità di accorgersi di quei limiti, spesso imposti da un nucleo famigliare arido, o da una scuola che non riesce più ad istruire né ad educare, e cercare di uscire da essi senza uscire dalla propria vita a segnare il passaggio all'età adulta.
Perché è vero, ci sono degli schemi che finché siamo bambini tendiamo a vivere con naturalezza, e che poi vengono meno di fronte all'incedere della ragione, ma anche alla forza di certi istinti e sentimenti. Lo vediamo nella musica, grande ombra che aleggia nel libro, e così è in tutto ciò che ci riguarda, sia nell'accettazione e nella feroce critica delle cose che sono attorno a noi, sia nel modo di vivere che vogliamo sceglierci, nelle cose che vogliamo far entrare nella nostra vita e in quelle che invece non capiamo o che ci sembrano imposte per comodità (e spesso lo sono).
Uscire da certi limiti, però, significa saperli affrontare, cioè vivere dentro di essi. Rispettare una persona, in un amore che è a termine, come quello del libro, significa saper vivere un rapporto di coppia, senza voler premettere i propri bisogni alla vita stessa, ma cercando nel fondo dei propri sentimenti e nel rapporto con una Parola/persona più grande di noi, che ci possa permettere di crescere essendo noi stessi.
In fondo a tutto, il libro indica come sia necessaria un'educazione, anche per uscire "dal gruppo", un'educazione che permette di vivere in quel medesimo gruppo, vivere per essere se stessi, non l'ombra di qualcun altro.

Mi sono permesso questa premessa/introduzione, che forse può essere chiara solo a chi ha letto il libro di cui Martina ci segnala questo bel brano e che forse può aggiungere qualche commento a ciò che ho scritto, di cui si può parlare anche a voce...

"Io non sto con te perché ... perché va bene cosi, perché giugno è fantastico, e sapere che c'è l'America che arriva, e allora dirsi tutto perché tra una settimana è troppo tardi, è magnifico. Qualcosa mi manca, e lo sai. Io vorrei baciarti e tutto il resto, ma non tanto per il gesto in sé ... Davvero. E' difficile ... è come mettere le basi per addomesticarti un po' di più. Farai più fatica a dimenticati di me, così. Resteremo più attaccati ogni cosa in più che faremo. Io ho paura, per l'anno prossimo. Bacerò cento ragazze, andrò a letto con gente di cui non m'importa, ma non sarà come uscire con te e non dirsi niente tutto il pomeriggio. Io so già che l'anno prossimo farò le cose più facili, più banali. E con te è tutto così trasparente e da ragazzini ... Se penso che non ti ho mai baciata, Aidi...”

"Lo sai, bisogna sempre fare solo Quello Che Ci Si Sente."
"Certo, dicevo così. Dicevo Quello Che Mi Sento."

"E cosa ti senti ancora?"
"Sento che questo giugno, questo scoprirsi ogni giorno di più, e ogni pezzo di me che scopro trovarne uno nuovo di te, ogni pezzo di me che ti regalo trovarne in cambio uno che tu mi lasci nel calzino di lana di fianco al camino mentre dormo, è bello. A me non era mai successo. E veder crescere Aidi e Alex, ogni giorno, ogni mattina di sole, che per il resto della gente non vuol dire niente di particolare, è sovvertire tutti i pronostici, e ridere di fronte all'Uomo delle Previsioni Sicure, quello che era certo che la Danimarca avrebbe preso una vagonata di goal e sarebbe stata eliminata nelle qualificazioni e invece si è qualificata e agli Europei giocherà con squadre molto più forti, e l'uomo delle Previsioni Sicure non si raccapezza. La gente capisce le cose solo quando sono già successe, mai mentre accadono. E per noi due è lo stesso. La gente che non capisce come sia possibile visto che l'Uomo dei Sondaggi aveva negato categoricamente che due come noi potessero avere una pazza storia del genere."

"Fantastico. E la Danimarca come gioca?"
"Bene. Si vede che si divertono."
"Alex", aveva detto lei, stringendogli le mani con una strana intensità che l'aveva turbato. "Io voglio che la Danimarca vinca."

E. Brizzi, Jack Frusciante è uscito dal gruppo

giovedì 2 ottobre 2008

La generalità è il tipo di reato commesso

Da La Repubblica di ieri, in riferimento a quanto accaduto a Parma, dove un ragazzo di colore è stato picchiato dalla polizia. L'articolo del link è interessante, ma ne posto qui un altro, che riguarda un malcostume culturale che si sta diffondendo in Italia, della caccia al diverso per sentirsi più sicuri, come se da lì provenissero i veri problemi...

A Parma, nella civile Parma, la polizia municipale ha massacrato di botte un giovane ghanese, Emmanuel Bonsu Foster, e ha scritto sulla sua pratica la spiegazione: "negro". Davano la caccia agli spacciatori e hanno trovato Emmanuel, che non è uno spacciatore, è uno studente. Anzi è uno studente che gli spacciatori li combatte. Stava cominciando a lavorare come volontario in un centro di recupero dei tossici. Ma è bastato che avesse la pelle nera per scatenare il sadismo dei vigili, calci, pugni, sputi al "negro". SEGUE A PAGINA 33 Parma è la stessa città dove qualche settimana fa era stata maltrattata, rinchiusa e fotografata come un animale una prostituta africana. L' ultimo caso di inedito razzismo all' italiana pone due questioni, una limitata e urgente, l' altra più generale. La prima è che non si possono dare troppi poteri ai sindaci. Il decreto Maroni è stato in questo senso una vera sciagura. La classe politica nazionale italiana è mediocre, ma spesso il ceto politico locale è, se possibile, ancora peggio. Delegare ai sindaci una parte di poteri, ha significato in questi mesi assistere a un delirio di norme incivili, al grido di "tolleranza zero". In provincia come nelle metropoli, nella Treviso o nella Verona degli sceriffi leghisti, come nella Roma di Alemanno e nella Milano della Moratti. A Parma il sindaco Pietro Vignali, una vittima della cattiva televisione, ha firmato ordinanze contro chiunque, prostitute e clienti, accattoni e fumatori (all' aperto!), ragazzi colpevoli di festeggiare per strada. Si è insomma segnalato, nel suo piccolo, nel grande sport nazionale: la caccia al povero cristo. Sarà il caso di ricordare a questi sceriffi che nella classifica dei problemi delle città italiane la sicurezza legata all' immigrazione non figura neppure nei primi dieci posti. I problemi delle metropoli italiane, confrontate al resto d' Europa, sono l' inquinamento, gli abusi edilizi, le buche nelle strade, la pessima qualità dei servizi, il conseguente e drammatico crollo di presenze turistiche eccetera eccetera. Oltre naturalmente alla penetrazione dell' economia mafiosa, da Palermo ad Aosta, passando per l' Emilia. I sindaci incompetenti non sanno offrire risposte e quindi si concentrano sui "negri". Nella speranza, purtroppo fondata, di raccogliere con meno fatica più consensi. Di questo passo, creeranno loro stessi l' emergenza che fingono di voler risolvere. Provocazioni e violenze continue non possono che evocare una reazione altrettanto intollerante da parte delle comunità di migranti. Al funerale di Abdoul, il ragazzo ucciso a Cernusco sul Naviglio non c' erano italiani per testimoniare solidarietà. A parte un grande artista di teatro, Pippo Del Bono, che ha filmato la rabbia plumbea di amici e parenti. La guerra agli immigrati è una delle tante guerre tragiche e idiote che non avremmo voluto. Ma una volta dichiarata, bisogna aspettarsi una reazione del "nemico". L' altra questione è più generale, è il clima culturale in cui sta scivolando il Paese, senza quasi accorgersene. Nel momento stesso in cui si riscrive la storia delle leggi razziali, nell' urgenza di rivalutare il fascismo, si testimonia quanto il razzismo sia una malapianta nostrana. L' Italia è l' unica nazione civile in cui nei titoli di giornali si usa ancora specificare la provenienza soltanto per i delinquenti stranieri: rapinatore slavo, spacciatore marocchino, violentatore rumeno. Poiché oltre il novanta per cento degli stupri, per fare un esempio, sono compiuti da italiani, diventa difficile credere a una forzatura dovuta all' emergenza. L' altra sera, da Vespa, tutti gli ospiti italiani cercavano di convincere il testimone del delitto di Perugia che "nessuno ce l' aveva con lui perché era negro". Negro? Si può ascoltare questo termine per tutta la sera da una tv pubblica occidentale? Non lo eravamo e stiamo diventando un paese razzista. Così almeno gli italiani vengono ormai percepiti all' estero. Forse non è vero. Forse la caccia allo straniero è soltanto un effetto collaterale dell' immensa paura che gli italiani povano da vent' anni davanti al fenomeno della globalizzazione. La paura e, perché no?, la vergogna si sentirsi inadeguati di fronte ai grandi cambiamenti, che si traduce nel più facile e abietto dei sentimenti, l' odio per il diverso. La nostalgia ridicola di un passato dove eravamo tutti italiani e potevamo quindi odiarci fra di noi. In questo clima culturale miserabile perfino un sindaco di provincia o un vigile di periferia si sentono depositari di un potere di vita o di morte su un "negro".

Curzio Maltese