martedì 31 marzo 2009

La preghiera (pt. II)

Se non è casuale l'insegnamento di Gesù del Padre nostro, "la preghiera per eccellenza della Chiesa", è perché essa contiene sia il COME pregare, sia il CHE COSA. Nel Vangelo di Matteo, questa preghiera è inserita nel contesto del discorso della montagna (cfr. Matteo 5, 1-7, 29) laddove egli indica la giustizia degli uomini, che trascende la preghiera ostentata dai farisei o quella che riempie solo i nostri cuori delle più forti emozioni. Pregare non significa agire per costruire limmagine di uomini virtuosi di fronte agli altri, ma per stabilire una relazione con Dio, non visto e non creduto (vorremmo sempre avere una fede maggiore e più forte, ci accorgiamo che non vi riusciamo). Un altro errore è quello di attendere di ricevere i benefici da Dio, che immaginiamo debba ascoltare i nostri bisogni per esserne informato. Si tratta di un errore perché trasforma la preghiera in una forma magica, che "affatica inutilmente gli dei" e che non è la preghiera del cristiano: la preghiera dipende dalla fede e dall'adesione a Dio, cioè alla nostra vita vera e alla realizzazione di essa a fianco dei fratelli, senza togliere loro nulla.

Di seguito, un brano tratto da Le lettere di Berlicche di C.S. Lewis sulla preghiera; un diavolo ne scrive ad un altro che lavora per concupire un'anima:
"La cosa migliore, se fosse possibile, sarebbe di tenere il paziente completamente lontano da qualsiasi seria intenzione di pregare. Quando il paziente è un adulto riconvertito da poco al partito del Nemico, come il tuo giovanotto, la cosa migliore è di incoraggiarlo a ricordare, o di fargli pesare il modo pappagallesco con il quale pregava quand'era fanciullo. Ciò significherebbe di fatto uno sforzo per produrre in se stesso un umore vagamente devoto in cui non avrebbe parte alcuna la vra concentrazione della volontà e dell'intelletto. Una preghiera che vogliamo noi è quella sentimentale a cui si giunge con un ascesso di supplica. [...] Se questo non riesce, devi ripiegare sopra un più sottile indirizzo sbagliato nella sua intenzione. Ogni volta che essi stanno servendo direttamente al Nemico noi siamo sconfitti, ma vi sono molte maniere per impedire loro di farlo. La più semplice è di stornare il loro sguardo da Lui verso loro stessi. Fa' in modo che si preoccupino della loro mente tentando di suscitarvi sentimenti per mezzo della volontà. Quando avessero intenzione di chiedere a Lui la carità, fa' in modo, invece, che comincino a tentare di fabbricarsi da sé sentimenti caritatevoli senza aver coscienza di ciò che stanno facendo. Quando avessero l'intenzione di pregare per ottenere il coraggio, fa' in modo che di fatto si sforzino di sentirsi coraggiosi. Quando dicono che stanno pregando per ottenere il perdono, fa' in modo che si sforzino di sentirsi perdonati. Insegna loro a stimare il valore di ciascuna preghiera a seconda del successo di essa nel produrre il sentimento desiderata. E che non abbiano mai il sospestto che un successo o un insuccesso di quel genere dipendeono in gran parte dal fatto che in quel momento si sentono bene o si sentono male, sono pieni di energia oppure stanchi."

lunedì 30 marzo 2009

La preghiera

Per l'uso ricorrente che Gesù fa della preghiera, possiamo intuire che la preghiera è il cemento che stabilisce la relazione col Padre e che permette di costruire il percorso di fede. Essa è luogo e fattore di discernimento e garantisce l'esperienza di contatto con la salvezza promessa dall'amore di Dio; avendo come protagonista lo Spirito è luogo della grazia, quindi momento di incontro forte con la Trinità cristiana.
E' un momento di vita piena, perché conduce l'uomo a discernere i "segreti" della propria vita in quanto li conosce dalla relazione con Dio. La preghiera, come luogo della grazia divina, eleva l'uomo e, anche quando è ua preghiera di richiesta, indica all'individuo la volontà di Dio, mostrandogli il senso del suo infinito amore.
Come scrive san Paolo ai Romani tramite la preghiera è "lo Spirito a venire in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio" (Rm 8, 26-27).

La preghiera più interessante è il Padre nostro perché la novità di essa "non sta nelle singole domande, bensì nell'evento di Gesù, che comporta una triplice novità: come Padre e Figlio, come Regno, come compimento. Questa triplice novità coinvolge radilcamente l'intero Padre nostro" (B. Maggioni, Padre nostro) e rivoluziona il nostro modo di pregare, cioè di rivolgerci al padre.
Come ci ricordano i padri della Chiesa, questa preghiera è breviarium totius evangelii (Tertulliano, La preghiera I, 6), cioè compendio del messaggio evangelico. Per questo motivo non è un caso che sia questa la preghiera (cfr. Matteo 6, 5-13) che Gesù ci invita a compiere: è la sua fede vissuta, è la sua attesa del Regno (che si realizza, che diventa attuale nella figura di Gesù!), c'è la sua vita quotidiana fatta di condivisione fraterna, c'è la conoscenza della volontà di Dio. Sull'esempio e sull'insegnamento di Gesù pregare è la relazione che stabiliamo con Dio, per conoscerne le opere e la sua volontà. In più nel Padre nostro, oltre allo schema per pregare, per saper cosa "chiedere", abbiamo anche la realizzazione della fede: nella preghiera si conferma la nostra fede: ci riconosciamo deboli e bisognosi di aiuto tanto da domandare il suo amore per salvarci, senza aver timore né paura, attualizzando la pienezza delle nostra vita: mediante il pane (cibo divino), senza aver alcun debito e lontani dal peccato e dalla condizione di sofferenza.

venerdì 27 marzo 2009

Saviano e la mafia

Ritengo che sia interessante e importante tenersi informati su queste cose: sono tante, ma si possono anche fermare e riprendere con calma. Rifletteteci su: pensare vi darà quel qualcosa in più nella vita...






giovedì 19 marzo 2009

Clementine


Bathtub IV from Keith Loutit on Vimeo.

Lettera del papa ai vescovi sulla remissione della scomunica

Commento di Enzo Bianchi

Lettera:
Cari Confratelli nel ministero episcopale!

La remissione della scomunica ai quattro Vescovi, consacrati nell’anno 1988 dall’Arcivescovo Lefebvre senza mandato della Santa Sede, per molteplici ragioni ha suscitato all’interno e fuori della Chiesa Cattolica una discussione di una tale veemenza quale da molto tempo non si era più sperimentata.
Molti Vescovi si sono sentiti perplessi davanti a un avvenimento verificatosi inaspettatamente e difficile da inquadrare positivamente nelle questioni e nei compiti della Chiesa di oggi. Anche se molti Vescovi e fedeli in linea di principio erano disposti a valutare in modo positivo la disposizione del Papa alla riconciliazione, a ciò tuttavia si contrapponeva la questione circa la convenienza di un simile gesto a fronte delle vere urgenze di una vita di fede nel nostro tempo.
Alcuni gruppi, invece, accusavano apertamente il Papa di voler tornare indietro, a prima del Concilio: si scatenava così una valanga di proteste, la cui amarezza rivelava ferite risalenti al di là del momento.

Mi sento perciò spinto a rivolgere a voi, cari Confratelli, una parola chiarificatrice, che deve aiutare a comprendere le intenzioni che in questo passo hanno guidato me e gli organi competenti della Santa Sede. Spero di contribuire in questo modo alla pace nella Chiesa.

Una disavventura per me imprevedibile è stata il fatto che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica. Il gesto discreto di misericordia verso quattro Vescovi, ordinati validamente ma non legittimamente, è apparso all’improvviso come una cosa totalmente diversa: come la smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei, e quindi come la revoca di ciò che in questa materia il Concilio aveva chiarito per il cammino della Chiesa.

Un invito alla riconciliazione con un gruppo ecclesiale implicato in un processo di separazione si trasformò così nel suo contrario: un apparente ritorno indietro rispetto a tutti i passi di riconciliazione tra cristiani ed ebrei fatti a partire dal Concilio - passi la cui condivisione e promozione fin dall’inizio era stato un obiettivo del mio personale lavoro teologico.
Che questo sovrapporsi di due processi contrapposti sia successo e per un momento abbia disturbato la pace tra cristiani ed ebrei come pure la pace all’interno della Chiesa, è cosa che posso soltanto deplorare profondamente.
Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l’internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema. Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie.
Sono rimasto rattristato dal fatto che anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco.
Proprio per questo ringrazio tanto più gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere di mezzo prontamente il malinteso e a ristabilire l’atmosfera di amicizia e di fiducia, che - come nel tempo di Papa Giovanni Paolo II - anche durante tutto il periodo del mio pontificato è esistita e, grazie a Dio, continua ad esistere.
Un altro sbaglio, per il quale mi rammarico sinceramente, consiste nel fatto che la portata e i limiti del provvedimento del 21 gennaio 2009 non sono stati illustrati in modo sufficientemente chiaro al momento della sua pubblicazione. La scomunica colpisce persone, non istituzioni.

Un’Ordinazione episcopale senza il mandato pontificio significa il pericolo di uno scisma, perché mette in questione l’unità del collegio episcopale con il Papa. Perciò la Chiesa deve reagire con la punizione più dura, la scomunica, al fine di richiamare le persone punite in questo modo al pentimento e al ritorno all’unità.
A vent’anni dalle Ordinazioni, questo obiettivo purtroppo non è stato ancora raggiunto. La remissione della scomunica mira allo stesso scopo a cui serve la punizione: invitare i quattro Vescovi ancora una volta al ritorno. Questo gesto era possibile dopo che gli interessati avevano espresso il loro riconoscimento in linea di principio del Papa e della sua potestà di Pastore, anche se con delle riserve in materia di obbedienza alla sua autorità dottrinale e a quella del Concilio. Con ciò ritorno alla distinzione tra persona ed istituzione.
La remissione della scomunica era un provvedimento nell’ambito della disciplina ecclesiastica: le persone venivano liberate dal peso di coscienza costituito dalla punizione ecclesiastica più grave. Occorre distinguere questo livello disciplinare dall’ambito dottrinale.
Il fatto che la Fraternità San Pio X non possieda una posizione canonica nella Chiesa, non si basa in fin dei conti su ragioni disciplinari ma dottrinali. Finché la Fraternità non ha una posizione canonica nella Chiesa, anche i suoi ministri non esercitano ministeri legittimi nella Chiesa.

Bisogna quindi distinguere tra il livello disciplinare, che concerne le persone come tali, e il livello dottrinale in cui sono in questione il ministero e l’istituzione. Per precisarlo ancora una volta: finché le questioni concernenti la dottrina non sono chiarite, la Fraternità non ha alcuno stato canonico nella Chiesa, e i suoi ministri - anche se sono stati liberati dalla punizione ecclesiastica - non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa.

Alla luce di questa situazione è mia intenzione di collegare in futuro la Pontificia Commissione “Ecclesia Dei” - istituzione dal 1988 competente per quelle comunità e persone che, provenendo dalla Fraternità San Pio X o da simili raggruppamenti, vogliono tornare nella piena comunione col Papa - con la Congregazione per la Dottrina della Fede.

Con ciò viene chiarito che i problemi che devono ora essere trattati sono di natura essenzialmente dottrinale e riguardano soprattutto l’accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero post-conciliare dei Papi.

Gli organismi collegiali con i quali la Congregazione studia le questioni che si presentano (specialmente la consueta adunanza dei Cardinali al mercoledì e la Plenaria annuale o biennale) garantiscono il coinvolgimento dei Prefetti di varie Congregazioni romane e dei rappresentanti dell’Episcopato mondiale nelle decisioni da prendere.
Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962 - ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità. Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa.
Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive.
Spero, cari Confratelli, che con ciò sia chiarito il significato positivo come anche il limite del provvedimento del 21 gennaio 2009.

Ora però rimane la questione: Era tale provvedimento necessario? Costituiva veramente una priorità? Non ci sono forse cose molto più importanti? Certamente ci sono delle cose più importanti e più urgenti. Penso di aver evidenziato le priorità del mio Pontificato nei discorsi da me pronunciati al suo inizio. Ciò che ho detto allora rimane in modo inalterato la mia linea direttiva.
La prima priorità per il Successore di Pietro è stata fissata dal Signore nel Cenacolo in modo inequivocabile: “Tu … conferma i tuoi fratelli” (Lc 22, 32). Pietro stesso ha formulato in modo nuovo questa priorità nella sua prima Lettera: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3, 15).

Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr Gv 13, 1) - in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più.
Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo.
Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti. La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio.

Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani - per l’ecumenismo - è incluso nella priorità suprema. A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce - è questo il dialogo interreligioso. Chi annuncia Dio come Amore “sino alla fine” deve dare la testimonianza dell’amore: dedicarsi con amore ai sofferenti, respingere l’odio e l’inimicizia - è la dimensione sociale della fede cristiana, di cui ho parlato nell’Enciclica Deus caritas est.
Se dunque l’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo costituisce in questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità per la Chiesa, allora ne fanno parte anche le riconciliazioni piccole e medie.
Che il sommesso gesto di una mano tesa abbia dato origine ad un grande chiasso, trasformandosi proprio così nel contrario di una riconciliazione, è un fatto di cui dobbiamo prendere atto. Ma ora domando: Era ed è veramente sbagliato andare anche in questo caso incontro al fratello che “ha qualche cosa contro di te” (cfr Mt 5, 23s) e cercare la riconciliazione?
Non deve forse anche la società civile tentare di prevenire le radicalizzazioni e di reintegrare i loro eventuali aderenti - per quanto possibile - nelle grandi forze che plasmano la vita sociale, per evitarne la segregazione con tutte le sue conseguenze?
Può essere totalmente errato l’impegnarsi per lo scioglimento di irrigidimenti e di restringimenti, così da far spazio a ciò che vi è di positivo e di ricuperabile per l’insieme? Io stesso ho visto, negli anni dopo il 1988, come mediante il ritorno di comunità prima separate da Roma sia cambiato il loro clima interno; come il ritorno nella grande ed ampia Chiesa comune abbia fatto superare posizioni unilaterali e sciolto irrigidimenti così che poi ne sono emerse forze positive per l’insieme.
Può lasciarci totalmente indifferenti una comunità nella quale si trovano 491 sacerdoti, 215 seminaristi, 6 seminari, 88 scuole, 2 Istituti universitari, 117 frati, 164 suore e migliaia di fedeli? Dobbiamo davvero tranquillamente lasciarli andare alla deriva lontani dalla Chiesa? Penso ad esempio ai 491 sacerdoti. Non possiamo conoscere l’intreccio delle loro motivazioni. Penso tuttavia che non si sarebbero decisi per il sacerdozio se, accanto a diversi elementi distorti e malati, non ci fosse stato l’amore per Cristo e la volontà di annunciare Lui e con Lui il Dio vivente.

Possiamo noi semplicemente escluderli, come rappresentanti di un gruppo marginale radicale, dalla ricerca della riconciliazione e dell’unità? Che ne sarà poi?
Certamente, da molto tempo e poi di nuovo in quest’occasione concreta abbiamo sentito da rappresentanti di quella comunità molte cose stonate - superbia e saccenteria, fissazione su unilateralismi ecc. Per amore della verità devo aggiungere che ho ricevuto anche una serie di testimonianze commoventi di gratitudine, nelle quali si rendeva percepibile un’apertura dei cuori. Ma non dovrebbe la grande Chiesa permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo respiro che possiede; nella consapevolezza della promessa che le è stata data? Non dovremmo come buoni educatori essere capaci anche di non badare a diverse cose non buone e premurarci di condurre fuori dalle strettezze? E non dobbiamo forse ammettere che anche nell’ambiente ecclesiale è emersa qualche stonatura?

A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi - in questo caso il Papa - perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo.
Cari Confratelli, nei giorni in cui mi è venuto in mente di scrivere questa lettera, è capitato per caso che nel Seminario Romano ho dovuto interpretare e commentare il brano di Gal 5, 13 - 15.
Ho notato con sorpresa l’immediatezza con cui queste frasi ci parlano del momento attuale: “Che la libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!”
Sono stato sempre incline a considerare questa frase come una delle esagerazioni retoriche che a volte si trovano in san Paolo. Sotto certi aspetti può essere anche così.

Ma purtroppo questo “mordere e divorare” esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata. È forse motivo di sorpresa che anche noi non siamo migliori dei Galati? Che almeno siamo minacciati dalle stesse tentazioni? Che dobbiamo imparare sempre di nuovo l’uso giusto della libertà? E che sempre di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore? Nel giorno in cui ho parlato di ciò nel Seminario maggiore, a Roma si celebrava la festa della Madonna della Fiducia. Di fatto: Maria ci insegna la fiducia. Ella ci conduce al Figlio, di cui noi tutti possiamo fidarci. Egli ci guiderà - anche in tempi turbolenti. Vorrei così ringraziare di cuore tutti quei numerosi Vescovi, che in questo tempo mi hanno donato segni commoventi di fiducia e di affetto e soprattutto mi hanno assicurato la loro preghiera. Questo ringraziamento vale anche per tutti i fedeli che in questo tempo mi hanno dato testimonianza della loro fedeltà immutata verso il Successore di san Pietro. Il Signore protegga tutti noi e ci conduca sulla via della pace. È un augurio che mi sgorga spontaneo dal cuore in questo inizio di Quaresima, che è tempo liturgico particolarmente favorevole alla purificazione interiore e che tutti ci invita a guardare con speranza rinnovata al traguardo luminoso della Pasqua.

Con una speciale Benedizione Apostolica mi confermo
Vostro nel Signore
BENEDICTUS PP. XVI
Dal Vaticano, 10 Marzo 2009

Ti basta?

mercoledì 18 marzo 2009

Che non sia un caso, per crescere

Per quello che ci può interessare maggiormente, il caso (sic) Eluana Englaro può interrogarci sulla vita e sulla fine-della-vita. Il professarci cristiani, con tutte le difficoltà di fronte ai temi caldi e alle posizioni dei vari vescovi e cardinali nel mondo, significa avere una visione profonda sulla vita, senza limitarci al giudizio, ma con un atteggiamento di comprensione.
Nel percorso di crescita della fede un passo importante è l'unione tra il riconoscere lo sbaglio del fratello e la capacità di vivere in comunità con lui, tralasciando quei comportamenti di attenzione morbosa agli altri, perché sono atteggiamenti inutili, vani e poco sensati.
Da questo punto di vista è molto interessante il documento Pacem in Terris, un'enciclica in preparazione al Concilio Vaticano II, di cui forse è opportuno ricordarsi (lo stesso concilio è sotteso alla modernità del prete che abbiamo visto nel film Il dubbio di cui abbiamo anche parlato). L'enciclica sottolinea la grande dignità umana: ogni uomo è salvato dalla redenzione di Cristo, ogni uomo è santo e, come tale, va rispettato. La funzione sociale della Chiesa diviene una funzione non di giudizio, ma di amore caritatevole verso l'umanità. Se vi ricordate, i discepoli di Gesù sono "il sale della terra" e per salare occorre riflettere l'essere di Cristo (vi sono delle scene meravigliose del Vangelo secondo Matteo di Pasolini con la predicazione di Gesù...): l'attività missionaria nel mondo dev'essere missione d'amore.
In questo senso l'enciclica sottolinea l'importanza della "serena valutazione dei casi concreti" (paragrafo 42), "l'applicazione delle leggi con saggezza", quasi sottolineando la necessità di costituire ogni riflessione consapevoli di dover astrarre da ogni caso concreto per non toccare il dolore, in questo caso, delle persone coinvolte. E questo vale anche nel caso di Eluana, che ieri sera ci interessava.

Riflettere su un qualcosa è interessante se tralascia ogni attenzione morbosa e si concentra sui principi, restituendo la complessità e la profondità della vita umana.

Di seguito trovate il collegamento ad un documento che don Mario ha letto alla fine dell'incontro con Cortelli...