sabato 28 febbraio 2009

Piccola Storia Ignobile - F. Guccini

Qualche appunto sull'aborto

Scriveva Pasolini all'epoca del referendum sull'aborto, quando era un tema caldo, non per la sua attualità, ma soprattutto perché occorreva compiere una scelta che fosse meditata:
"Condivido col partito radicale l'ansia della ratificazione, l'ansia cioè del dar corpo formale a realtà esistenti: che è il primo principio della democrazia. Sono però traumatizzto dalla legalizzazione dell'aborto, perché la considero una legalizzazione dell'omicidio". Pasolini, pur riconoscendo la necessità di far entrare entro l'alveo della legalità qualcosa di esistente e dall'uso consolidato, ammetteva un timore profondo. Come se non potesse essere sufficiente la legalizzazione, il passaggio del diritto, per rendere quell'atto meno scabroso e più accettabile. Il problema risiede qui, nel passaggio dal diritto al fatto: è un tratto di notevole spessore e complicazione, perché tutto non può semplificarsi nella possibilità accordata dal diritto, ma è richiesta una maggiore comprensione, una maggiore interrogazione.
La legalità deve offrire la possibilità di lettura del "problema", per comprenderlo più a fondo; non ascoltando le ragioni dei "diretti interessati", ma astraendo dal caso dei singoli (come ai cristiani è indicato nella Pacem in Terris, un documento pre-conciliare) per capire le ragioni profonde di un atto che tra gli anni '60 e '70 è stato letto come una riappropriazione femminista del potere politico: storicamente non è più il padre a decidere dei figli, considerate ad esempio certi miti greci o la complessità dell'Edipo (e le letture moderne), ma diviene la donna a regolare la società attraverso una lotta di appropriazione del corpo.
Se astraiamo da certe situazioni, in cui "questa piccola necessità ignobile", come cantava Guccini, è accettabile; ci accorgiamo di come dietro alla legge si nasconda un diritto che è o di libertà di fare ciò che si preferisce e quindi inaccettabile, o si traduce come diritto del più forte che decide per la minoranza (come cantava de André) e quindi pericoloso.
Pasolini, nel suo articolo, continuava indicando i "reali" principi su cui si fondava la lotta di legalizzazione: da un lato la libertà sessuale e la comodità sessuale come unica dimensione su cui, un certo atteggiamento pubblicitario schiaccia la complessità dell'uomo, "questa libertà del coito della coppia così com'è concepita dalla maggioranza - questa meravigliosa permissività nei suoi riguardi - da chi è stata tacitamente voluta, tacitamente promulgata e tacitamente fatta entrare, in modo ormai irreversibile, nelle abitudini? Dal potere dei consumi, dal nuovo fascismo. Esso si è impadronito delle esigenze di libertà, diciamo così, liberali e progressiste e, facendole sue, le ha vanificate, ha cambiato la loro natura. Oggi la libertà sessuale della maggioranza è in realtà una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un'ansia soviale, una caratteristica irrinunciabile della qualità di vita del consumatore. Insomma, la falsa liberalizzazione del benessere ha creato una situazione altrettanto e forse più insana che quella dei tempi della povertà". Perché è una libertà regalata dal potere. In secondo luogo come maledizione della vita, come colpa coscienziale che, ce ne siamo accorti nell'incontro di qualche martedì fa, ormai scompare di fronte alla possibilità imposta: "Se i legislatori non arrivassero sempre in ritardo, e non fossero cupamente sordi all'immaginazione per restare fedeli al loro buon senso e alla propria astrazione pragmatica, potrebbero risolvere tutto riubricando il reato dell'aborto in quello più vasto dell'eutanasia [...] Non per questo cesserebbe di essere formalmente un reato e di apparire tale alla coscienza. Ed è questo il principio che i miei amici radicali dovrebbero difendere, anziché buttarsi (con onestà donchisciottesca) in un pasticcio, estremamente sensato ma alquanto pietistico, di ragazze madre e di femministe, angosciate in realtà da altro (di più grave e più serio). [...]
C'è da lottare prima di tutto contro la falsa tolleranza del nuovo potere totalitario dei consumi, distinguendosene con tutta l'indignazione del caso; e poi c'è da imporre alla retroguardia di tale potere, tutta una serie di liberazioni". Che siano, però, liberazioni vere e democratiche e che si muovano in un orizzonte di crescita e di comprensione del problema.

Occorre rifuggire quanti, con onestà donchisciottesca, fanno lotte senza ragioni (anche se per motivi encomiabili e giusti): il fine non giustifica i mezzi. Perché dietro ci sono altri pericoli, più gravi.
Guardatevi da chi vi regala qualcosa dicendo di farlo per voi: perché la libertà si esercita, non si mendica (come diceva E. Bianchi).


Concludo ancora con Pasolini: "Bisogna evitare prima l'aborto e, se ci si arriva, bisogna renderlo legalmente possibile solo in alcuni casi responsabilmente valutati (evitando dunque di gettarsi in una isterica e terroristica campagna per la completa legalizzazione, che sancirebbe come non reato una colpa). [...] Qui c'è di mezzo la vita umana, e non lo dico perché la vita umana è sacra perché oggi non lo è più. Ma parlo di questa vita umana, di questo ventre di questa madre. E' popolare essere con gli abortisti in modo acritico ed estremistico? Non c'è neanche bisogno di dare spiegazioni? Si può tranquillamente sorvolare su un caso di coscienza personale riguardante la decisione di fare o non fare venire al mondo qualcuno che ci vuole assolutamente venire? Va bene essere cinici, non credere a nulla, ritenere la vita del feto una romanticheria, un caso di coscineza su un tale problema come ubna sciocchezza idealistica. Ma queste non sono delle buone ragioni".

giovedì 26 febbraio 2009

Inizio di Quaresima

S. Egidio.
C'è un senso liberante nel non dover sempre far finta di essere forti e di essere senza macchia e senza contraddizioni. La vera forza sta nel considerare la propria debolezza e nel tener vivo il senso di umiltà e di mitezza: "I miti - afferma Gesù - erediteranno la terra" (Mt 5,5). Il segno  delle ceneri resta perciò quanto mai attuale. È un segno austero, e tale è anche il tempo quaresimale. Esso ci è dato per aiutarci a vivere meglio e per farci comprendere quant'è grande l'amore di Dio che ha scelto di legarsi a gente debole e fragile come noi. E a noi, deboli e fragili, ha affidato il grande dono della pace perché la viviamo, la custodiamo, la difendiamo, la costruiamo.

Noi cristiani siamo chiamati ad essere sentinelle di pace, nei luoghi in cui viviamo e lavoriamo. Ci è chiesto di vigilare, affinché le coscienze non cedano alla tentazione dell'egoismo, della menzogna e della violenza". Il digiuno e la preghiera ci rendono sentinelle attente e vigili perché non vinca il sonno della rassegnazione che fa ritenere la guerra inevitabile; perché si allontani il sonno della acquiescenza al male che continua ad opprimere il mondo; perché sia sconfitto in radice il sonno del realismo pigro che fa ripiegare su se stessi e sui propri interessi.

martedì 17 febbraio 2009

Protezione civile

Lo stupro è un delitto vile e una violenza profonda. Forse il più primordiale dei crimini, che in ciascuno di noi evoca sentimenti altrettanto primordiali: la paura, l' ira, lo spirito di vendetta. Che questi sentimenti debbano essere temperati dalla ragione, e dalla coscienza del diritto, è adesso ancora più evidente dopo il vergognoso raid razzista di ieri sera a Roma contro un bar gestito da romeni. A conferma di quanto pericoloso sia il clima, e quanto disposti alla violenza i peggiori cittadini. Ma la ripetizione rituale degli appelli alla temperanza, e il mero invito ad affidarsi al magistero delle leggi e alla protezione dello Stato, in questa tempesta emotiva rischiano di suonare vuoti, e distratti, tal quali la massima parte delle parole politiche di questo difficilissimo scorcio d' epoca. Peggio, rischiano di rappresentare, anche quando non lo siano, il pilatesco disimpegno della "casta" e in generale dei ceti socialmente più protetti, indifferenti di fronte al rischio e all' impotenza di chi vive a contatto con la strada, nei quartieri difficili, a diretto contatto con gli aspetti più ruvidi e aspri della violenza endemica e dell' immigrazione clandestina. Ripetere che la grande maggioranza delle violenze sessuali avvengono in famiglia, spesso coperte dall' ipocrisia, dall' arbitrio maschile e dalla rassegnazione femminile, è vero e giusto: ma non vale a rinfrancare e tranquillizzare quei cittadini che, a torto o a ragione, vivono la violenza di strada come il più intollerabile dei soprusi. La tentazione popolare di auto-organizzare il controllo del territorio (e magari anche la punizione dei colpevoli veri o presunti) è vista con legittima diffidenza da chi ha cultura civile, e spirito legalitario. Essa racchiude, in una forbice di intenzioni così ampia da essere contraddittoria, l' orrendo istinto del linciaggio, del rastrellamento, della giustizia sommaria, del pogrom di quartiere come è accaduto ieri a Roma e in precedenza a Napoli contro i rom (si è poi saputo che il "casus belli", il presunto tentato rapimento di un neonato da parte di una giovane zingara, era stato inventato di sana pianta); ma al capo opposto racchiude anche una volontà di partecipazione attiva, e quasi di "protezione civile", che non è più consentito ridurre a puro malumore manesco e reazionario. Il governo, a quanto si capisce, intende incentivare le cosiddette "ronde", muovendosi nell' alveo naturale di un populismo che è insieme istintivo e strumentale. Ma opporre a questo fenomeno il puro esorcismo legalitario non serve: semmai minaccia di peggiorare le cose, consegnando alle forze politiche più a loro agio sul mercato della paura (vedi la Lega e le sue ronde) una specie di monopolio della reazione popolare, che nella deriva del diritto può dare luogo a una raggelante gestione partitica della sicurezza (di "servizi d' ordine" che generavano altro disordine questo paese ne ha già avuti davvero troppi). E dunque: ripetuto, e non si ripete mai abbastanza, che spetta alle forze dell' ordine garantire la sicurezza, alla magistratura di applicare la legge e al governo e al Parlamento di indirizzare le politiche di sicurezza, come affrontare l' onda tumultuante e inquietante della "giustizia popolare", dei pattugliamenti di quartiere più o meno spontanei, dell' insicurezza effettiva e di quella percepita? L' idea di ricondurla a una ragionevole e perfino utile opera di assistenza a polizia e carabinieri, nonché a un ruolo di dissuasione civica e disarmata, non è più insensata che limitarsi alla virtuosa giaculatoria sulle prerogative dello Stato. In questo clima di razzismo, di uso ansiogeno e bassamente speculativo del problema della sicurezza (chissà se il sindaco Alemanno si è pentito di avere addossato alle amministrazioni di centrosinistra ogni colpa...), forse non sarebbe inutile che la politica - Parlamento e sindaci in primo luogo - provasse a misurare la temperatura della strada non per volgerla a qualche suo effimero vantaggio, ma per aiutarla a rincivilire i suoi umori, e trasformare una scomposta paura popolare in forme attive, controllate e proficue di controllo del territorio. Disinnescando una temibile deriva razzista, manesca e di fazione, e riconsegnando ai bisogni della comunità ciò che oggi è un minaccioso magma emotivo, alla mercé di frange estremiste, capibastone rionali, mestatori di partito, ducetti di crocevia. Si dice sempre, del resto, che alle radici della crisi della politica ci sia il drammatico distacco dai bisogni popolari. Un evidente bisogno popolare è darsi da fare perché l' attraversamento di un giardinetto in pieno pomeriggio, o l' attesa di amici sul portone sotto casa, non si trasformino in una violazione insopportabile per due ragazze inermi. Tra definire "eroe" chi sventa singolarmente uno stupro, e vedere in ogni reazione collettiva una minaccia per l' ordine democratico, ci deve pur essere una volonterosa e rassicurante via di mezzo. Specie per la sinistra, che della partecipazione popolare, ai tempi, si faceva meritato vanto, questo è un banco di prova da non eludere. Gli assenti hanno sempre torto. - MICHELE SERRA

domenica 8 febbraio 2009

La gita di classe:

Tra le poche notizie positive uscite nei giorni scorsi dai palazzi romani, e passate come d’abitudine quasi inosservate, c’è l’intesa tra i ministri dell’Istruzione e dei Beni Culturali Mariastella Gelmini e Sandro Bondi per scoraggiare i viaggi all’estero delle scolaresche italiane. Il programma «Alla scoperta del tuo Paese», che durerà due anni e coinvolgerà 500 istituti, mira non solo a promuovere la conoscenza del territorio nazionale in vista del 150mo anniversario dell’Unità ma anche a combattere un certo andazzo spensieratamente vacanziero diffuso in questi anni nelle scuole della Repubblica. Quelli che vengono spacciati come «viaggi di istruzione» a Barcellona o a Berlino (due tra le mete più gettonate) sono di fatto degli ottimi pretesti per bigiare tutti insieme, professori e studenti, una settimana o più di lezioni e andare a bighellonare in una capitale straniera. Qualche ora di sbadigli alla Sagrada Familia o alla Gemäldegalerie, un po’ di foto col telefonino, poi di corsa nella prima birreria o in qualche Tapas Bar. Per tacere delle notti brave in albergo, con annessi spinelli e video osé. Voli low cost e pacchetti all inclusive rendono popolari queste transumanze presso le famiglie, ben felici di liberarsi per un po’ dell’ingombrante presenza di adolescenti ipodizzati e scarsamente interattivi.
Il programma ministeriale prevede pure un concorso aperto a scuole medie e licei, che dovranno gemellarsi per proporre idee originali di viaggi d’istruzione (non di distruzione né di distrazione), rigorosamente entro i confini patrii. Attendiamo fiduciosi gli esiti del concorso. Purché l’originalità non consista nel mandare i ragazzi a Firenze coll’insegnante di ginnastica, che non sa neppure chi era Brunelleschi.
Se fossi nei panni dei professori suggerirei una destinazione insolita, lontana dalle rotte più battute: la bella isola di Lampedusa, ultimamente frequentata da una specie particolare di crocieristi provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo. Laggiù, senza bisogno di passare la frontiera, ma restando in terra italiana, gli studenti potranno vedere un po’ di mondo, capire le conseguenze della globalizzazione e imparare due concetti fondamentali delle democrazie liberali: il dovere di accoglienza verso lo straniero e il valore della vita umana. Non la vita vegetativa, ma quella piena e cosciente di chi lotta per sopravvivere e spesso viene buttato a mare senza che a nessuno venga in mente di salvarlo con un decreto. Peggio, rischiando di essere denunciato come clandestino dai medici del pronto soccorso.

R. Chiaberge, Contrappunto

mercoledì 4 febbraio 2009

Di qualche incontro sulle dipendenze e sostanza (+ un invito x venerdì)

Ieri abbiamo concluso, e secondo me degnamente, due incontri sulle dipendenze e sulle sostanze. Non voglio qui riassumerne i contenuti, preferirei che foste voi a sottolineare gli aspetti che possono essere stati più interessanti o più approfonditi, aggiungendo, magari qualche vostra riflessione in nota (cioè per mezzo di commenti).
Sottolineo una cosa che definirei di metodo. Abbiamo visto che chi assume sostanze lo fa per procurarsi un piacere e sa che correrà un certo rischio. Ieri ci siamo (anche) concentrati su che cosa dà "piacere"; è un problema molto vasto e, parlandone per spot si rischia di renderlo banale, occorre però pensarci e rifletterci, per non rischiare di appendere la propria vita al nulla.
Riguardo a questo punto, si può aggiungere che chi assume sostanze lo fa sfidando questo rischio, nella convinzione di poter sconfiggere qualsiasi cosa. Per sentirsi immortale e invincibile. Purtroppo pensare questo conduce a non accorgersi del contrario, che sia la sostanza ad aver preso il sopravvento.
Come i tossicodipendenti, anche noi facciamo delle cose ritenendoci "più grandi", o "più fighi", o migliori di tutti gli altri; lo facciamo quando riteniamo che ogni cosa che facciamo sià la più importante e che, di conseguenza, non abbiamo bisogno di nessuno.
Riflettete su questo.
Perché essere adulti e comportarsi in modo intelligente, significa accorgersi 1. che non si è immortali, 2. che non sempre tutto quello che voglio succede, 3. che fare più fatica a guadagnarsi qualcosa significa che quella cosa è più importante delle altre (limitarsi a fare le cose facili corrisponde a giocare sempre al livello easy), 4. che non è vero che non si ha bisogno di nulla.
Credere di essere totalmente auto-sufficienti (di essere un'isola), non riconoscere che si ha bisogno dell'altro è l'errore che, spesso inconsciamente, rischiamo di compiere. Ed è un errore grave. Ecco perché è importante anche fare con gli altri e per gli altri qualcosa (leggete: capire cos'è questa cosa della stazione e venire per provare), perché è un modo per scendere sulla Terra e vedere come si vive, come le persone abbiano bisogno delle relazioni e come sia importante prendersi cura di se stessi prendendosi cura degli altri (accennavo a questa cosa, in altri termini anche ieri sera. Ieri, dicendo che come ci si accorge delle piccole cose che riguardano le altre persone, così ci accorge anche delle piccole cosa che riguardano se stessi, per non pensare sempre a sé. Ora, ritraducendo questa cosa in termini etici: prendersi cura degli altri vuol dire avere cura di sé).

Sentirsi piccoli, inadatti, sbagliati e con qualche difetto di produzione, ma volersi impegnare vuol dire saper vivere, essere adulti. Vuol dire riuscire a stabilire delle vere relazioni: come può, chi non ha bisogno di nulla e nessuno, amare davvero i propri simili?