venerdì 30 gennaio 2009

La memoria umana è uno strumento meraviglioso, ma fallace

Siamo stati capaci, noi reduci, di comprendere e di far comprendere la nostra esperienza? Ciò che comunemente intendiamo per "comprendere" coincide con "semplificare": senza una profonda semplificazione, il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito, che sfiderebbe la nostra capacità di orientarci e di decidere le nostre azioni. Siamo insomma costretti a ridurre il conoscibile a schema: a questo scopo tendono i mirabili strumenti che ci siamo costruiti nel corso dell'evoluzione e che sono specifici del genere umano, il linguaggio ed il pensiero concettuale.
Tendiamo a semplificare anche la storia; ma non sempre lo schema entro cui si ordinano i fatti è individuabile in modo univoco, e può dunque accadere che storici diversi comprendano e costruiscano la storia in modi fra loro incompatibili; tuttavia, è talmente forte in noi, forse per ragioni che risalgono alle nostre origini di animali sociali, l'esigenza di dividere il campo fra "noi" e "loro", che questo schema, la bipartizione amico-nemico, prevale su tutti gli altri. La storia popolare, ed anche la storia quale viene tradizionalmente insegnata nelle scuole, risente di questa tendenza manichea che rifugge dalle mezze tinte e dalle complessità: è incline a ridurre il fiume degli accadimenti umani ai conflitti, e i conflitti a duelli, noi e loro, gli ateniesi e gli spartani, i romani e i cartaginesi. Certo è questo il motivo dell'enorme popolarità degli sport spettacolari, come il calcio, il baseball e il pugilato, in cui i contendenti sono due squadre o due individui, ben distinti e identificabili, e alla fine della partita ci saranno gli sconfitti e i vincitori. Se il risultato è di parità, lo spettatore si sente defraudato e deluso: a livello più o meno inconscio, voleva i vincitori ed i perdenti, e li identificava rispettivamente con i buoni e i cattivi, poiché sono i buoni che devono avere la meglio, se no il mondo sarebbe sovvertito.
Questo desiderio di semplificazione è giustificato, la semplificazione non sempre lo è. È un'ipotesi di lavoro, utile in quanto sia riconosciuta come tale e non scambiata per la realtà; la maggior parte dei fenomeni storici e naturali non sono semplici, o non semplici della semplicità che piacerebbe a noi. Ora, non era semplice la rete dei rapporti umani all'interno dei Lager: non era riducibile ai due blocchi delle vittime e dei persecutori. In chi legge (o scrive) oggi la storia dei Lager è evidente la tendenza, anzi il bisogno, di dividere il male dal bene, di poter parteggiare, di ripetere il gesto di Cristo nel Giudizio Universale: qui i giusti, là i reprobi. Soprattutto i giovani chiedono chiarezza, il taglio netto; essendo scarsa la loro esperienza del mondo, essi non amano l'ambiguità. La loro aspettazione, del resto, riproduce con esattezza quella dei nuovi arrivati in Lager, giovani o no: tutti, ad eccezione di chi avesse già attraversato un'esperienza analoga, si aspettavano di trovare un mondo terribile ma decifrabile, conforme a quel modello semplice che atavicamente portiamo in noi, "noi" dentro e il nemico fuori, separati da un confine netto, geografico.
L'ingresso in Lager era invece un urto per la sorpresa che portava con sé. Il mondo in cui ci si sentiva precipitati era sì terribile, ma anche indecifrabile: non era conforme ad alcun modello, il nemico era intorno ma anche dentro, il "noi" perdeva i suoi confini, i contendenti non erano due, non si distingueva una frontiera ma molte e confuse, forse innumerevoli, una fra ciascuno e ciascuno. Si entrava sperando almeno nella solidarietà dei compagni di sventura, ma gli alleati sperati, salvo casi speciali, non c'erano; c'erano invece mille monadi sigillate, e fra queste una lotta disperata, nascosta e continua. Questa rivelazione brusca, che si manifestava fin dalle prime ore di prigionia, spesso sotto la forma immediata di un'aggressione concentrica da parte di coloro in cui si sperava di ravvisare i futuri alleati, era talmente dura da far crollare subito la capacità di resistere. Per molti è stata mortale, indirettamente o anche direttamente: è difficile difendersi da un colpo a cui non si è preparati.
In questa aggressione si possono distinguere diversi aspetti. Occorre ricordare che il sistema concentrazionario, fin dalle sue origini (che coincidono con la salita al potere del nazismo in Germania), aveva lo scopo primario di spezzare la capacità di resistenza degli avversari: per la direzione del campo, il nuovo giunto era un avversario per definizione, qualunque fosse l'etichetta che gli era stata affibbiata, e doveva essere demolito subito, affinché non diventasse un esempio, o un germe di resistenza organizzata. Su questo punto le SS avevano le idee chiare, e sotto questo aspetto è da interpretare tutto il sinistro rituale, diverso da Lager a Lager, ma unico nella sostanza, che accompagnava l'ingresso; i calci e i pugni subito, spesso sul viso; l'orgia di ordini urlati con collera vera o simulata; la denudazione totale; la rasatura dei capelli; la vestizione con stracci. È difficile dire se tutti questi particolari siano stati messi a punto da qualche esperto o perfezionati metodicamente in base all'esperienza, ma certo erano voluti e non casuali: una regia c'era, ed era vistosa.
Tuttavia, al rituale d'ingresso, ed al crollo morale che esso favoriva, contribuivano più o meno consapevolmente anche le altre componenti del mondo concentrazionario: i prigionieri semplici ed i privilegiati. Accadeva di rado che il nuovo venuto fosse accolto, non dico come un amico, ma almeno come un compagno di sventura; nella maggior parte dei casi, gli anziani (e si diventava anziani in tre o quattro mesi: il ricambio era rapido!) manifestavano fastidio o addirittura ostilità. Il "nuovo" (Zugang: si noti, in tedesco è un termine astratto, amministrativo; significa "ingresso", "entrata") veniva invidiato perché sembrava che avesse ancora indosso l'odore di casa sua, ed era un'invidia assurda, perché in effetti si soffriva assai di più nei primi giorni di prigionia che dopo, quando l'assuefazione da una parte, e l'esperienza dall'altra, permettevano di costruirsi un riparo. Veniva deriso e sottoposto a scherzi crudeli, come avviene in tutte le comunità con i "coscritti" e le "matricole", e con le cerimonie di iniziazione presso i popoli primitivi: e non c'è dubbio che la vita in Lager comportava una regressione, riconduceva a comportamenti, appunto, primitivi.
È probabile che l'ostilità verso lo Zugang fosse in sostanza motivata come tutte le altre intolleranze, cioè consistesse in un tentativo inconscio di consolidare il "noi" a spese degli "altri", di creare insomma quella solidarietà fra oppressi la cui mancanza era fonte di una sofferenza addizionale, anche se non percepita apertamente. Entrava in gioco anche la ricerca del prestigio, che nella nostra civiltà sembra sia un bisogno insopprimibile: la folla disprezzata degli anziani tendeva a ravvisare nel nuovo arrivato un bersaglio su cui sfogare la sua umiliazione, a trovare a sue spese un compenso, a costruirsi a sue spese un individuo di rango più basso su cui riversare il peso delle offese ricevute dall'alto.
Per quanto riguarda i prigionieri privilegiati, il discorso è più complesso, ed anche più importante: a mio parere, è anzi fondamentale. È ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema infero, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada, le assimila a sé, e ciò tanto più quanto più esse sono disponibili, bianche, prive di un'ossatura politica o morale. Da molti segni, pare che sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa (non solo nei Lager nazisti!) le vittime dai persecutori, e di farlo con mano più leggera, e con spirito meno torbido, di quanto non si sia fatto ad esempio in alcuni film. Solo una retorica schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai, è costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità ad un tempo), che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana, se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova si dovesse nuovamente prospettare, o se anche soltanto vogliamo renderci conto di quello che avviene in un grande stabilimento industriale.
I prigionieri privilegiati erano in minoranza entro la popolazione dei Lager, ma rappresentano invece una forte maggioranza fra i sopravvissuti; infatti, anche se non si tenga conto della fatica, delle percosse, del freddo, delle malattie, va ricordato che la razione alimentare era decisamente insufficiente anche per il prigioniero più sobrio: consumate in due o tre mesi le riserve fisiologiche dell'organismo, la morte per fame, o per malattie indotte dalla fame, era il destino normale del prigioniero. Poteva essere evitato solo con un sovrappiù alimentare, e per ottenere questo occorreva un privilegio, grande o piccolo; in altre parole, un modo, octroyé o conquistato, astuto o violento, lecito o illecito, di sollevarsi al di sopra della norma.
Ora, non si può dimenticare che la maggior parte dei ricordi dei reduci, raccontati o scritti, incomincia così: l'urto contro la realtà concentrazionaria coincide con l'aggressione, non prevista e non compresa, da parte di un nemico nuovo e strano, il prigioniero-funzionario, che invece di prenderti per mano, tranquillizzarti, insegnarti la strada, ti si avventa addosso urlando in una lingua che tu non conosci, e ti percuote sul viso. Ti vuole domare, vuole spegnere in te la scintilla di dignità che tu forse ancora conservi e che lui ha perduta. Ma guai a te se questa tua dignità ti spinge a reagire: questa è una legge non scritta ma ferrea, il zurückschlagen, il rispondere coi colpi ai colpi, è una trasgressione intollerabile, che può venire in mente appunto solo a un "nuovo". Chi la commette deve diventare un esempio: altri funzionari accorrono a difesa dell'ordine minacciato, e il colpevole viene percosso con rabbia e metodo finché è domato o morto. Il privilegio, per definizione, difende e protegge il privilegio. Mi torna a mente che il termine locale, jiddisch e polacco, per indicare il privilegio era "protekcja", che si pronuncia "protekzia" ed è di evidente origine italiana e latina; e mi è stata raccontata la storia di un "nuovo" italiano, un partigiano, scaraventato in un Lager di lavoro con l'etichetta di prigioniero politico quando era ancora nel pieno delle sue forze. Era stato malmenato durante la distribuzione della zuppa, ed aveva osato dare uno spintone al funzionario-distributore: accorsero i colleghi di questo, e il reo venne affogato esemplarmente immergendogli la testa nel mastello della zuppa stessa.
L'ascesa dei privilegiati, non solo in Lager ma in tutte le convivenze umane, è un fenomeno angosciante ma immancabile: essi sono assenti solo nelle utopie. È compito dell'uomo giusto fare guerra ad ogni privilegio non meritato, ma non si deve dimenticare che questa è una guerra senza fine. Dove esiste un potere esercitato da pochi, o da uno solo, contro i molti, il privilegio nasce e prolifera, anche contro il volere del potere stesso; ma è normale che il potere, invece, lo tolleri o lo incoraggi. Limitiamoci al Lager, che però (anche nella sua versione sovietica) può ben servire da "laboratorio ": la classe ibrida dei prigionieri-funzionari ne costituisce l'ossatura, ed insieme il lineamento più inquietante. È una zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare.
La zona grigia della "protekcja" e della collaborazione nasce da radici molteplici. In primo luogo, l'area del potere, quanto più è ristretta, tanto più ha bisogno di ausiliari esterni; il nazismo degli ultimi anni non ne poteva fare a meno, risoluto com'era a mantenere il suo ordine all'interno dell'Europa sottomessa, e ad alimentare i fronti di guerra dissanguati dalla crescente resistenza militare degli avversari. Era indispensabile attingere dai paesi occupati non solo mano d'opera, ma anche forze d'ordine, delegati ed amministratori del potere tedesco ormai impegnato altrove fino all'esaurimento. Entro quest'area vanno catalogati, con sfumature diverse per qualità e peso, Quisling di Norvegia, il governo di Vichy in Francia, il Judenrat di Varsavia, la Repubblica di Salò, fino ai mercenari ucraini e baltici impiegati dappertutto per i compiti più sporchi (mai per il combattimento), ed ai Sonderkommandos di cui dovremo parlare. Ma i collaboratori che provengono dal campo avversario, gli ex nemici, sono infidi per essenza: hanno tradito una volta e possono tradire ancora. Non basta relegarli in compiti marginali; il modo migliore di legarli è caricarli di colpe, insanguinarli, comprometterli quanto più è possibile: così avranno contratto coi mandanti il vincolo della correità, e non potranno più tornare indietro. Questo modo di agire è noto alle associazioni criminali di tutti i tempi e luoghi, è praticato da sempre dalla mafia, e tra l'altro è il solo che spieghi gli eccessi, altrimenti indecifrabili, del terrorismo italiano degli anni '70.
In secondo luogo, ed a contrasto con una certa stilizzazione agiografica e retorica, quanto più è dura l'oppressione, tanto più è diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare col potere. Anche questa disponibilità è variegata da infinite sfumature e motivazioni: terrore, adescamento ideologico, imitazione pedissequa del vincitore, voglia miope di un qualsiasi potere, anche ridicolmente circoscritto nello spazio e nel tempo, viltà, fino a lucido calcolo inteso a eludere gli ordini e l'ordine imposto. Tutti questi motivi, singolarmente o fra loro combinati, sono stati operanti nel dare origine a questa fascia grigia, i cui componenti, nei confronti dei non privilegiati, erano accomunati dalla volontà di conservare e consolidare il loro privilegio.
Prima di discutere partitamente i motivi che hanno spinto alcuni prigionieri a collaborare in varia misura con l'autorità dei Lager, occorre però affermare con forza che davanti a casi umani come questi è imprudente precipitarsi ad emettere un giudizio morale. Deve essere chiaro che la massima colpa pesa sul sistema, sulla struttura stessa dello Stato totalitario; il concorso alla colpa da parte dei singoli collaboratori grandi e piccoli (mai simpatici, mai trasparenti!) è sempre difficile da valutare. È un giudizio che vorremmo affidare soltanto a chi si è trovato in circostanze simili, ed ha avuto modo di verificare su se stesso che cosa significa agire in stato di costrizione. Lo sapeva bene il Manzoni: "I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano 1'animo degli offesi". La condizione di offeso non esclude la colpa, e spesso questa è obiettivamente grave, ma non conosco tribunale umano a cui delegarne la misura.
Se dipendesse da me, se fossi costretto a giudicare, assolverei a cuor leggero tutti coloro per cui il concorso nella colpa è stato minimo, e su cui la costrizione è stata massima. Intorno a noi, prigionieri senza gradi, brulicavano i funzionari di basso rango. Costituivano una fauna pittoresca: scopini, lava-marmitte, guardie notturne, stiratori dei letti (che sfruttavano a loro minuscolo vantaggio la fisima tedesca delle cuccette rifatte piane e squadrate), controllori di pidocchi e di scabbia, portaordini, interpreti, aiutanti degli aiutanti. In generale, erano poveri diavoli come noi, che lavoravano a pieno orario come tutti gli altri, ma che per mezzo litro di zuppa in più si adattavano a svolgere queste ed altre funzioni "terziarie": innocue, talvolta utili, spesso inventate dal nulla. Raramente erano violenti, ma tendevano a sviluppare una mentalità tipicamente corporativa, ed a difendere con energia il loro "posto di lavoro" contro chi, dal basso o dall'alto, glie lo insidiava. Il loro privilegio, che del resto comportava disagi e fatiche supplementari, fruttava loro poco, e non li sottraeva alla disciplina ed alle sofferenze degli altri; la loro speranza di vita era sostanzialmente uguale a quella dei non privilegiati. Erano rozzi e protervi, ma non venivano sentiti come nemici.
Il giudizio si fa più delicato e più vario per coloro che occupavano posizioni di comando: i capi (Kapos: il termine tedesco deriva direttamente da quello italiano, e la pronuncia tronca, introdotta dai prigionieri francesi, si diffuse solo molti anni dopo, divulgata dall'omonimo film di Pontecorvo, e favorita in Italia proprio per il suo valore differenziale) delle squadre di lavoro, i capibaracca, gli scritturali, fino al mondo (a quel tempo da me neppure sospettato) dei prigionieri che svolgevano attività diverse, talvolta delicatissime, presso gli uffici amministrativi del campo, la Sezione Politica (di fatto, una sezione della Gestapo), il Servizio del Lavoro, le celle di punizione. Alcuni fra questi, grazie alla loro abilità o alla fortuna, hanno avuto accesso alle notizie più segrete dei rispettivi Lager, e, come Hermann Langbein ad Auschwitz, Eugen Kogon a Buchenwald, e Hans Marsalek a Mauthausen, ne sono poi diventati gli storici. Non si sa se ammirare di più il loro coraggio personale o la loro astuzia, che ha concesso loro di aiutare concretamente i loro compagni in molti modi, studiando attentamente i singoli ufficiali delle SS con cui erano a contatto, ed intuendo quali fra questi potessero essere corrotti, quali dissuasi dalle decisioni più crudeli, quali ricattati, quali ingannati, quali spaventati dalla prospettiva di un redde rationem a guerra finita. Alcuni fra loro, ad esempio i tre nominati, erano anche membri di organizzazioni segrete di difesa, e perciò il potere di cui disponevano grazie alla loro carica era controbilanciato dal pericolo estremo che correvano, in quanto "resistenti" e in quanto detentori di segreti.
I funzionari ora descritti non erano affatto, o erano solo apparentemente, dei collaboratori, bensì piuttosto degli oppositori mimetizzati. Non così la maggior parte degli altri detentori di posizioni di comando, che si sono rivelati esemplari umani da mediocri a pessimi. Piuttosto che logorare, il potere corrompe; tanto più intensamente corrompeva il loro potere, che era di natura peculiare.
Il potere esiste in tutte le varietà dell'organizzazione sociale umana, più o meno controllato, usurpato, investito dall'alto o riconosciuto dal basso, assegnato per merito o per solidarietà corporativa o per sangue o per censo: è verosimile che una certa misura di dominio dell'uomo sull'uomo sia inscritta nel nostro patrimonio genetico di animali gregari. Non è dimostrato che il potere sia intrinsecamente nocivo alla collettività. Ma il potere di cui disponevano i funzionari di cui si parla, anche di basso grado, come i Kapos delle squadre di lavoro, era sostanzialmente illimitato; o per meglio dire, alla loro violenza era imposto un limite inferiore, nel senso che essi venivano puniti o destituiti se non si mostravano abbastanza duri, ma nessun limite superiore. In altri termini, erano liberi di commettere sui loro sottoposti le peggiori atrocità, a titolo di punizione per qualsiasi loro trasgressione, o anche senza motivo alcuno: fino a tutto il 1943, non era raro che un prigioniero fosse ucciso a botte da un Kapo, senza che questo avesse da temere alcuna sanzione. Solo più tardi, quando il bisogno di mano d'opera si era fatto più acuto, vennero introdotte alcune limitazioni: i maltrattamenti che i Kapos potevano infliggere ai prigionieri non dovevano ridurne permanentemente la capacità lavorativa; ma ormai il mal uso era invalso, e non sempre la norma venne rispettata.
Si riproduceva così, all'interno dei Lager, in scala più piccola ma con caratteristiche amplificate, la struttura gerarchica dello Stato totalitario, in cui tutto il potere viene investito dall'alto, ed in cui un controllo dal basso è quasi impossibile. Ma questo "quasi" è importante: non è mai esistito uno Stato che fosse realmente "totalitario" sotto questo aspetto. Una qualche forma di retroazione, un correttivo all'arbitrio totale, non è mai mancato, neppure nel Terzo Reich né nell'Unione Sovietica di Stalin: nell'uno e nell'altra hanno fatto da freno, in maggiore o minor misura, l'opinione pubblica, la magistratura, la stampa estera, le chiese, il sentimento di umanità e giustizia che dieci o vent'anni di tirannide non bastano a sradicare. Solo entro il Lager il controllo dal basso era nullo, ed il potere dei piccoli satrapi era assoluto. È comprensibile come un potere di tale ampiezza attirasse con prepotenza quel tipo umano che di potere è avido: come vi aspirassero anche individui dagli istinti moderati, attratti dai molti vantaggi materiali della carica; e come questi ultimi venissero fatalmente intossicati dal potere di cui disponevano.
Chi diventava Kapo? Occorre ancora una volta distinguere. In primo luogo, coloro a cui la possibilità veniva offerta, e cioè gli individui in cui il comandante del Lager o i suoi delegati (che spesso erano buoni psicologi) intravedevano la potenzialità del collaboratore: rei comuni tratti dalle carceri, a cui la carriera di aguzzini offriva un'eccellente alternativa alla detenzione; prigionieri politici fiaccati da cinque o dieci anni di sofferenze, o comunque moralmente debilitati; più tardi, anche ebrei, che vedevano nella particola di autorità che veniva loro offerta l'unico modo di sfuggire alla "soluzione finale". Ma molti, come accennato, aspiravano al potere spontaneamente: lo cercavano i sadici, certo non numerosi ma molto temuti, poiché per loro la posizione di privilegio coincideva con la possibilità di infliggere ai sottoposti sofferenza ed umiliazione. Lo cercavano i frustrati, ed anche questo è un lineamento che riproduce nel microcosmo del Lager il macrocosmo della società totalitaria: in entrambi, al di fuori della capacità e del merito, viene concesso generosamente il potere a chi sia disposto a tributare ossequio all'autorità gerarchica, conseguendo in questo modo una promozione sociale altrimenti irraggiungibile. Lo cercavano, infine, i molti fra gli oppressi che subivano il contagio degli oppressori e tendevano inconsciamente ad identificarsi con loro.
Su questa mimesi, su questa identificazione o imitazione o scambio di ruoli fra il soverchiatore e la vittima, si è molto discusso. Si sono dette cose vere e inventate, conturbanti e banali, acute e stupide: non è un terreno vergine, anzi, è un campo arato maldestramente, scalpicciato e sconvolto. La regista Liliana Cavani, a cui era stato chiesto di esprimere in breve il senso di un suo film bello e falso, ha dichiarato: "Siamo tutti vittime o assassini e accettiamo questi ruoli volontariamente. Solo Sade e Dostoevskij l'hanno compreso bene"; ha detto anche di credere "che in ogni ambiente, in ogni rapporto, ci sia una dinamica vittima-carnefice più o meno chiaramente espressa e generalmente vissuta a livello non cosciente".
Non mi intendo di inconscio e di profondo, ma so che pochi se ne intendono, e che questi pochi sono più cauti; non so, e mi interessa poco sapere, se nel mio profondo si annidi un assassino, ma so che vittima incolpevole sono stato ed assassino no; so che gli assassini sono esistiti, non solo in Germania, e ancora esistono, a riposo o in servizio, e che confonderli con le loro vittime è una malattia morale o un vezzo estetistico o un sinistro segnale di complicità; soprattutto, è un prezioso servigio reso (volutamente o no) ai negatori della verità. So che in Lager, e più in generale sul palcoscenico umano, capita tutto, e che perciò l'esempio singolo dimostra poco. Detto chiaramente tutto questo, e riaffermato che confondere i due ruoli significa voler mistificare dalle basi il nostro bisogno di giustizia, restano da fare alcune considerazioni.
Rimane vero che, in Lager e fuori, esistono persone grige, ambigue, pronte al compromesso. La tensione estrema del Lager tende ad accrescerne la schiera; esse posseggono in proprio una quota (tanto più rilevante quanto maggiore era la loro libertà di scelta) di colpa, ed oltre a questa sono i vettori e gli strumenti della colpa del sistema. Rimane vero che la maggior parte degli oppressori, durante o (più spesso) dopo le loro azioni, si sono resi conto che quanto facevano o avevano fatto era iniquo, hanno magari provato dubbi o disagio, od anche sono stati puniti; ma queste loro sofferenze non bastano ad arruolarli fra le vittime. Allo stesso modo, non bastano gli errori e i cedimenti dei prigionieri per allinearli con i loro custodi: i prigionieri dei Lager, centinaia di migliaia di persone di tutte le classi sociali, di quasi tutti i paesi d'Europa, rappresentavano un campione medio, non selezionato, di umanità: anche se non si volesse tener conto dell'ambiente infernale in cui erano stati bruscamente precipitati, è illogico pretendere da loro, ed è retorico e falso sostenere che abbiano sempre e tutti seguito, il comportamento che ci si aspetta dai santi e dai filosofi stoici.

P. Levi, I sommersi e i salvati
da M.Chiara

martedì 27 gennaio 2009

La resurrezione e la storia

Secondo post; vale come per tutti gli altri: ogni commento è lecito e necessario, non solo per mostrare d'aver accettato, ma perché quanto abbiamo detto domenica, che ora qui viene scritto, venga compreso col proprio ingegno.

Dalla prima lettera ai Corinzi: Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l'ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano!
Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici.

Vi è, in queste parole, la conferma della presenza evenenziale della resurrezione.
Essa unisce due caratteristiche, la prima storica ed analogabile, data dalla morte di Gesù: egli muore veramente e passa tre giorni nel regno dei morti. La seconda è teologica e mostra l'intervento di Dio, la sua opera esclusiva. Egli taglia la storia, la rompe mostrandosi in essa: con la sua azione spacca il percorso storico, è questo un atto esclusivo di Dio, in-analogabile. Non è neanche comprensibile all'uomo secondo le sue categorie, perché oltrepassa le possibilità umane.
Si instilla in un evento storico, il termine della vita umana di Gesù, che trova completezza, continuità ed identità nella Resurrezione. E' il senso oltre la morte, è il senso oltre alla storia. E' la possibilità di incontrare realmente Dio, sia sulla croce, che nella vita vera: l'uomo può giungere all'incontro con Dio.
La resurrezione è un fatto reale, non storico perché non può essere catalogato dall'uomo (forse questo è il passaggio più complesso da comprendere, perché siamo abituati a ritenere valido ciò che consideriamo storico, cioè ciò a cui diamo valore di verità perché ritenuto a memoria), ma che ha un significato che va oltre al semplice ricordo storico. Ha lasciato, infatti, traccia nella storia: ci permette di non avere fede solo di un fatto di 2000 anni fa, ma di incontrare Gesù in seguito a quel fatto: di incontrarlo qui e ora, nella nostra vita.
Per la nostra vita acquisisce più senso non la verificabilità storica di quella contingenza, ma la sua presenza totale nel mondo: non è più un fatto storico, perché continuiamo a vivere la resurrezione di Gesù. E la vivremo anche alla fine del mondo...

E' una spaccatura nella storia, perché è l'inizio di una vita nuova resa possibile dallo Spirito Santo. Lascia delle tracce di mistero nella vita e dà significato al nostro vivere successivo.
In paroloni, la resurrezione è la chiave ermeneutica per leggere la vita di Gesù e per leggere la nostra storia: anche noi possiamo cambiare la nostra vita incontrando la resurrezione di Gesù, vero evento di amore.
La resurrezione è storia perché riguarda la vita di un uomo, ma non è solo un evento storico, perché è presenza attuale.

Non voglio mettere troppe note sulla storia, ma di solito, si considera un evento storico quando non è più cronaca attuale, quando vi è qualcuno che sa rileggere quella storia e quei fatti, quando qualcuno può raccoglierli e catalogarli. (Abbiamo anche esempi di chi ritiene il contrario di questo)

La resurrezione non è un allontanamento dal mondo, ma è una presenza di Gesù in mezzo a noi (che ripetiamo nella messa): è un nuovo modo di vicinanza. E' la fine perfetta della morte di croce, in questo non è un evento lontano dalla vita, ma è la verifica profonda della morte. E' il lato divino, la vera vita. La realizzazione di Dio nella storia.

La resurrezione: centro della fede

Dall'incontro di domenica nel cammino verso la prof. di fede. Questo è un primo post sul cuore e compendio della fede. Più quesiti riuscite a porre (dubbi, critiche o frasi che mostrano d'accettare e d'aver compreso il ragionamento) meglio è...

Dagli Atti degli Apostoli, 25: "I sommi sacerdoti e i capi dei Giudei gli si presentarono per accusare Paolo e cercavano di persuaderlo, chiedendo come un favore, in odio a Paolo, che lo facesse venire a Gerusalemme; e intanto disponevano un tranello per ucciderlo lungo il percorso. Festo rispose che Paolo stava sotto custodia a Cesarèa e che egli stesso sarebbe partito fra breve. «Quelli dunque che hanno autorità tra voi, disse, vengano con me e se vi è qualche colpa in quell'uomo, lo denuncino». [...] Erano trascorsi alcuni giorni, quando arrivarono a Cesarèa il re Agrippa e Berenìce, per salutare Festo. E poiché si trattennero parecchi giorni, Festo espose al re il caso di Paolo: «C'è un uomo, lasciato qui prigioniero da Felice, contro il quale, durante la mia visita a Gerusalemme, si presentarono con accuse i sommi sacerdoti e gli anziani dei Giudei per reclamarne la condanna. Risposi che i Romani non usano consegnare una persona, prima che l'accusato sia stato messo a confronto con i suoi accusatori e possa aver modo di difendersi dall'accusa. Allora essi convennero qui e io senza indugi il giorno seguente sedetti in tribunale e ordinai che vi fosse condotto quell'uomo. Gli accusatori gli si misero attorno, ma non addussero nessuna delle imputazioni criminose che io immaginavo; avevano solo con lui alcune questioni relative la loro particolare religione e riguardanti un certo Gesù, morto, che Paolo sosteneva essere ancora in vita. Perplesso di fronte a simili controversie, gli chiesi se voleva andare a Gerusalemme ed esser giudicato là di queste cose. Ma Paolo si appellò perché la sua causa fosse riservata al giudizio dell'imperatore, e così ordinai che fosse tenuto sotto custodia fino a quando potrò inviarlo a Cesare». E Agrippa a Festo: «Vorrei anch'io ascoltare quell'uomo!». «Domani, rispose, lo potrai ascoltare».

Di tanti brani sulla resurrezione questo è il racconto che ne dà un soldato romano al re Agrippa e a sua sorella; (altri sono la lettera ai Corinzi, 1Cor 15,3-11 che abbiamo letto domenica; o il racconto dei Vangeli, ad esempio Gv 20,1-18).
Nella stesura dei Vangeli, che non sono la cronaca in diretta delle opere di Gesù, né sono uno scritto di Gesù stesso, la parte della morte e della resurrezione è stata la prima a venire redatta, perché su di essa si fonda la centralità e l'unicità del messaggio cristiano e della testimonianza di Gesù.
Va da sé che tutto acquista un senso con la resurrezione: tutta la predicazione (che è vita) di Cristo trova un senso nel compimento della Parola di Dio. La resurrezione è il nucleo della fede perché è la rivelazione dell'amore di Dio, è la realizzazione del disegno d'amore di Dio che dona suo figlio e che sconfigge la morte, mostrando all'uomo che è possibile fidarsi di lui e che è lecito farlo. La resurrezione dà compimento alla Parola di Gesù, perché mostra che Dio non dimentica nessuno e che è veramente la via per uscire dalla nostra condizione di debolezza e di maledizione.

Questo è comprensibile se consideriamo il kerigma nella sua completezza: passione-morte-resurrezione. La morte di Gesù è sicuramente il punto più basso (anche la passione mostra l'ingresso di Gesù e la presenza di Dio in ogni punto della vita umana, in proposito mi piacque molto la Via Crucis della Gmg a Koln, chi vuole la può consultare qui), il punto di non-ritorno: presso essa i discepoli vacillano - e alcuni non avevano compreso e si erano rifiutati di giungere a Gerusalemme sapendo ciò che sarebbe toccato a Gesù. Inoltre la morte sulla croce è veramente quanto di più abietto possa capitare (Deut 21, 23: Maledetto chi pende dal legno; Gal 3, 13), sia perché per gli Ebrei era simbolo di maledizione, sia perché, oltre al dolore immane, si veniva trattati nel modo peggiore. La crocifissione e la morte sono simbolo ed espressione concreta della malvagità che sonnecchia nel cuore dell'uomo, del desiderio bestiale di vendetta. Rappresentano, anche per questo motivo, il supplizio peggiore per una società fondata sul binomio onore/disonore.
Non ha senso la morte. Lo acquista solo di fronte alla tomba vuota; questa è una domanda che attende risposta, non è ancora la consapevolezza della resurrezione. La resurrezione mostra che Dio è sceso negli abissi dell'uomo, che Gesù è presente e si è caricato della morte di tutti coloro che vivono nella morte. La morte è la proprietà più intima dell'uomo, e lì è possibile incontrare Gesù ed incontrarlo non solamente nel dolore, ma nella liberazione. Seguirlo per uscire e liberarsi alla vita. Dio dispone del potere sulla morte, è presente anche in essa e ci ama così a fondo che nessuno può considerarsi tanto maledetto da non avere più nessuno che lo ami.
La morte e la croce, il dono dello Spirito acquisiscono senso solo alla luce della resurrezione. E' questa la condizione di massima presenza di Dio, perché non è solo un Essere da adorare, ma è realmente presente in noi, vicino a noi, in mezzo a noi.

La resurrezione ci presenta un Gesù realmente presente a noi; essa non è solo il ritorno alla vita del passato, ma è una nuova nascita. Non è un evento isolato, ma è un evento che si apre al futuro e che dà significato al nostro agire, perché lo inserisce in una storia di amore. La parola di Gesù, la sua vita, è la presenza significante che permette all'uomo di non disperdere le proprie forze, ma di trovare un significato alla propria vita: si passa dal dubbio ad una situazione di sicurezza e certezza: i patti non verranno traditi. E' così anche per i discepoli, che dopo la resurrezione diventeranno Chiesa.

A mo di conclusione e preghiera:
se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini.
Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo. Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.

1 Cor 15, 12-28

venerdì 23 gennaio 2009

Appuntamenti

Gennaio

Domenica 25, ore 18.45 – Incontro + cena (portare da mangiare qualcosa di salato)
Mart 27 - no gruppo
Sab 31, ore 20.45 - Veglia per la Pace (vengono anche i ragazzi di Chiesanuova...)

Febbraio

Mart 3 – incontro
Giov 5, ore 21 – adorazione per quanti verranno ordinati accoliti o lettori (tra cui il papà di Elisa)... Chi vuole può partecipare...
Ven 6, ore 18.45 – primo incontro per le uscite in stazione. Parleremo con chi se ne occupa e ceniamo insieme in parrocchia. (da questo momento tutti i venerdì ci sarà l'uscita in stazione)
Domenica 8, ore 11.30 – messa con ordinazione del papà di Elisa.
Mart 10 – gruppo
Mart 17 – gruppo
Sabato 21/Domenica 22 – (IMPORTANTE) vendita di torte e biscotti per l'autofinanziamento! Portate tutti qualche torta o dei biscotti. Il nostro gruppo si occupa della messa del sabato (ci troviamo ore 18.40) e della vendita dopo la messa delle 11.30 di domenica.
Mart 24 – gruppo
Merc 25, ore 21 – mercoledì delle ceneri, inizio della Quaresima (per chi non riesce a venire alle 21, c’è una messa anche alle 18.30)

Marzo

Domenica 1, ore 18.45 – Incontro per la Professione di Fede più cena!
Mart 3 – NO Gruppo!
Giov 5 – Dom 8, CONVIVENZA!
Mart 10 – Gruppo
Mart 17 - Gruppo
Sab 21 – Dom 22, DUE GIORNI!!
Domenica 29, ore 18.45 – Incontro per la Professione di Fede più cena!

mercoledì 21 gennaio 2009

Facciamolo ora!!!

Dal vangelo secondo Marco


Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono.
Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.

La parola chiave del Vangelo di Marco è “subito”. Subito, lo seguirono per diventare pescatori di uomini! Non c’è più tempo da perdere, se vogliamo collaborare con il Signore dobbiamo farlo subito, qui ed ora. Nella nostra famiglia, con i colleghi di lavoro, con il nostro stile di vita. L’umanità è in attesa di qualcuno che la richiami alla realtà: vive sommersa, quasi annegata; ma Gesù propone anche a noi di diventare pescatori di uomini, di aiutarlo a tirare fuori i nostri fratelli dal lago della tristezza. Ci chiede di farlo “subito”, perché come dice S. Paolo, il tempo ormai si è fatto breve; non c’è tempo da perdere, passa la scena di questo mondo per noi e per gli altri e se vogliamo dare un senso alla vita dobbiamo alzarci, andare, seguirlo.
In questa risposta non sta solo la chiamata al servizio, come prima cosa sta l'annuncio della salvezza, la vita eterna a cui qui e ora dobbiamo rispondere.
Come i primi apostoli sorpresi dallo sguardo di Gesù mentre erano intenti alle loro quotidiane occupazioni, anche noi dobbiamo saperlo incontrare nelle nostre case spesso lacerate da incomprensioni e recriminazioni, nel lavoro inquinato da invidie e frustrazioni, nel nostro cuore travagliato da angosce e dal peccato. Per poter diventare pescatori di uomini, a nostra volta dobbiamo farci pescare da Gesù e dobbiamo fidarci di Lui (e farlo subito).
“Ogni giorno possiamo incontrare Gesù ed esserne sconvolti. Non dobbiamo avere nessun timore. Gesù non si annuncia mai attraverso la paura, ma attraverso un grande ed incoercibile desiderio che egli esaudisce sempre, quando viene l’ora, al di là di ogni aspettativa”.
Il vangelo è una educazione ai nostri desideri: per crescere dobbiamo saperli indirizzare. C'è sicuramente una attesa, abbiamo delle aspettative: studiamo per avere un buon lavoro, oltre che per imparare e dimostrarlo a professori e compagni. In questo caso l'attesa è immediata. Si tratta di ora.
Il regno di Dio si è realizzato, è venuto sulla Terra, è Gesù. Rimandare non è più possibile, perché significa non accoglierlo.
E' certo che accoglierlo significa non esserci dentro al 100%; non è una questione di cifre e di numeri. E' un percorso che si compie, che prevede anche un obiettivo a cui rispondere con energia anche se non si è completamente convinti, perché è un affidarsi. I discepoli non erano convinti, perché non sapranno fino alla resurrezione chi è davvero Gesù. Eppure loro hanno seguito: si sono fidati!!!
Il nostro desiderio di pienezza, di vera vita si compie. Si compie ora. Rimandare non è possibile, perché è un'ebbrezza di auto-sufficienza; è un errore, è una paura che, se è ben comprensibile, non può sussistere di fronte a Dio: il credente sta davanti a Dio come il bambino piccolo che solleva le braccia di fronte a sua madre. Si riconosce la propria debolezza, ma si mostra la voglia di andare incontro a chi è QUI e ORA con noi. Ogni rinvio corrisponde ad una fuga.

Inoltre, la chiamata è una chiamata fuori dalla morte! Siamo chiamati fuori dal mare (simbolo che indica la morte); siamo chiamati per compiere una missione.
Possiamo rimandare in eterno, ma corrisponderebbe a rimandare la nostra vita, a non realizzarla: è più comodo stare seduti in poltrona a poltrire, ma che vita sarebbe?