sabato 25 settembre 2010

Servizio al campo Caritas di Pile, L'Aquila

E' difficile trarre delle conclusioni da quello che sono stati questi 11 giorni di servizio a L'Aquila: per quanto mi riguarda, sono stata là abbastanza per capire che devo ancora capire molte cose. Sono stati giorni intensi, non solo e non tanto per la fatica fisica quanto per quella psicologica: sono tornata con parecchio “materiale” su cui riflettere e con la sensazione di aver vissuto ogni singolo momento. A ognuno di noi sono rimaste impressioni a volte molto diverse tra loro e quindi mi limito a tentare di esprimere le mie, in cui so che alcuni si riconosceranno, altri meno.
Ero partita spinta prima di tutto dal desiderio di toccare con mano la situazione a distanza di più di un anno dal terremoto e non mi facevo troppe illusioni sul contributo che avrei potuto dare: convinta che l'esperienza diretta valga più di mille discorsi, volevo soprattutto immergermi in quella realtà mettendomi in gioco e in discussione, per riportarla a casa nei racconti e nei ricordi ma anche per lasciare là qualcosa di me.
Siamo stati catapultati a L'Aquila in una settimana particolare, per via della festa della Perdonanza e di tutto ciò che l'ha preceduta: la salma di Celestino V che girava per le parrocchie e che era arrivata proprio quel giorno sotto il tendone/chiesa del nostro campo, la Marcia della Pace del Sermig...perfino un concerto di Fiorella Mannoia (della quale noi ragazze siamo diventate da quel momento fan sfegatate)! Questo ha fatto sì che al campo ci fossero ritmi serrati e una certa tensione, dovuti al gran numero di lavori e spostamenti da organizzare, e l'accoglienza non è stata delle migliori, cosa che inizialmente mi ha un po' spiazzata. Oltre a questo, siccome le serate erano tutte occupate dagli eventi a cui ho accennato prima, a cui abbiamo partecipato facendo anche servizio di sicurezza, all'inizio si è sentita la mancanza di momenti di condivisione e conoscenza con gli altri abitanti del campo.
Ma a parte l'inizio burrascoso (e a parte il trauma quotidiano della sveglia alle sei), tutto il resto, in particolare durante la seconda settimana, è stato per me un motivo continuo di entusiasmo e riflessione, a partire dai lavori manuali (come pulire le aule che ospiteranno l'università o sistemare il giardino di una scuola elementare) per arrivare alle serate passate a cantare e scherzare ma anche ad ascoltare le testimonianze dei volontari in arrivo o in partenza e dei “fissi”, che sono là da mesi o da più di un anno. Alcuni di loro hanno alle spalle una storia che non sospetteresti conoscendoli adesso (chi ha una passato di tossicodipendenza, chi di vagabondaggio...); ancora una volta ho potuto constatare che spesso nel servizio si riceve più di ciò che si dà.
Una sera hanno partecipato alla serata anche i parrocchiani di Pile, che per la maggior parte sono arrivati lì dopo il terremoto; ricorderò sempre una donna che, pur avendo perso la casa, ringraziava per il dono di poter ancora guardare ogni mattina negli occhi verdi di suo figlio. Ho conosciuto persone veramente in gamba, come Sara, che ho accompagnato nei cosiddetti “giri”, durante i quali andava a visitare varie persone registrate dalla Caritas, per portare aiuti e assistenza ma spesso anche “solo” un po' di compagnia. Questa è una delle attività principali dei fissi: hanno suddiviso L'Aquila, che come Comune comprende un territorio molto esteso (Onna, per esempio, è una sua frazione), in nove zone e ognuno si occupa di una di esse, aggiornando continuamente su un quaderno l'evolversi della situazione degli assistiti. Prima del terremoto, per l'intera città dell'Aquila c'erano solo tre assistenti sociali. Per questo, subito dopo il sisma sono emerse situazioni di grosso disagio preesistenti; una delle prime iniziative della Caritas è stata quindi quella di entrare in contatto, nelle tendopoli e anche all'infuori di esse (tra coloro che erano rimasti in casa, perlopiù anziani), con queste persone, continuando a seguirle anche dopo la chiusura dei campi. Sara era al campo da più di un anno ed erano i suoi ultimi giorni lì; è stato commovente vedere l'affetto col quale tutti i suoi “assistiti” la salutavano e il rapporto che aveva creato con loro.
Nonostante i miei momenti di nervosismo, dovuto alla stanchezza, è stato fondamentale per me essere andata là con gli amici, quelli che mi conoscono da una vita e che considero la base su cui poter contare. Condividendo la fatica l'ho sentita di meno e, anzi, mi sono divertita molto e ho avuto la conferma del valore di ognuno di loro.
Ci siamo messi in gioco, quindi ci dividevamo nelle varie attività e per la maggior parte della giornata non ci vedevamo, ma è stato bello trovarsi tutti insieme a pranzo (o solo a cena, per chi era al Grest, una specie di Estate Ragazzi) con tante esperienze diverse da raccontare e con la voglia di prendere fiato in compagnia, suonando e cantando sotto il gazebo.
Ci siamo messi in gioco e abbiamo vinto insieme: devo per metà a loro la riuscita di questo campo.
L'altra metà è merito del campo in sé, della bellezza del servizio. A un certo punto del nostro giro, Sara mi ha detto una frase che mi ha colpito molto: “La gente si stupisce del fatto che stiamo qui da così' tanto, ma in realtà la cosa difficile non è rimanere, ma decidere di partire e riprendere la propria vita”. In effetti mi sono bastati undici giorni là per uscire completamente dal mio mondo e abituarmi alla vita del campo, come se fosse la normalità; non mi è difficile capire la scelta di chi ci è rimasto per così tanto. Il rientro a casa, a settembre, con l'inizio della scuola ormai incombente, i mille impegni, il rumore, la routine e la noia in agguato, non è stato facile, ho sofferto un po' di “mal d'Aquila”, di nostalgia per quelle giornate piene in cui ogni minuto era davvero speso per qualcosa di utile e bello. Spero di essermi portata un po' di quell'energia qua a Bologna. Intanto penso di aver iniziato a fare la mia parte raccontando quello che ho vissuto là e che...spero di rivivere, quando ci torneremo nelle vacanze di Natale!

La “situazione”
Quando sono tornata, in molti mi hanno chiesto della “situazione aquilana”. Vorrei poter descrivere un quadro generale, ma non ho dati sufficienti; posso però affermare con sicurezza che la realtà è molto diversa e più complessa di quello che ci hanno fatto vedere i media.
Un esempio? Le prime case del progetto C.A.S.E. (che là chiamano “le case di Berlusconi”) sono state consegnate a partire dal 29 settembre 2010 (anche se gli ultimi edifici sono stati completati il 19 febbraio, in base ai dati del sito della Protezione Civile), ma l'ultima tendopoli, quella di Piazza d'Armi, è stata chiusa definitivamente solo il 25 novembre. Degli alloggi costruiti dal Governo, dalla Protezione Civile o da donatori come le Regioni (che comprendono i MAP, cioè le casette in legno, e blocchi abitativi del progetto C.A.S.E.) hanno usufruito circa 18˙000 persone (dati tratti da “Il centro”, quotidiano locale), altre 25˙000 invece godono del contributo di autonoma sistemazione (CAS), cioè si sono arrangiate contando su un assegno governativo; i finanziamenti però sono a singhiozzo e non arrivano più da aprile (per alcuni comuni, addirittura da gennaio). Alcune migliaia di persone, tra cui molti anziani, sono ancora negli hotel sulla costa (che dista 70 km dall'Aquila).
Ma non bastano un tetto e un piatto di pasta per vivere. L'economia all'Aquila non è mai stata molto sviluppata e dal terremoto in poi è rimasta congelata; neanche le vie di comunicazione col resto d'Italia sono particolarmente agevoli. Un'importante fattore economico era costituito dall'università, che contando 30˙000 studenti (sui circa 100˙000 abitanti) creava un certo giro, ma dopo il sisma ovviamente non tutte le facoltà hanno riaperto e comunque molti se ne sono dovuti andare. Il tessuto sociale si è sfilacciato, molti sono stati costretti a trasferirsi lontano dal loro paese d'origine e dalla loro casa, mancano luoghi di ritrovo perchè il centro è chiuso (ad eccezione di una strada che lo attraversa da parte a parte e su cui sono aperti sì e no una decina di negozi, quasi tutti bar): a quanto mi hanno detto, ora il punto di riferimento giovanile è il nuovo centro commerciale “L'Aquilone”.
In centro, sulle transenne sono appesi cartelloni e foto di protesta per come è stata gestita la ricostruzione; nella piazza del duomo (l'unica aperta) c'è un tendone con su scritto “Riprendiamoci la città”, ed è lì da subito dopo il terremoto. L'iniziativa locale è stata soffocata fin dall'inizio, tutti gli interventi sono stati prerogativa della Protezione Civile, ma il centro è ancora chiuso per il 90% e i tempi della ricostruzione aumentano continuamente: ho conosciuto una signora, che vive in un garage col pavimento di terra battuta, a cui avevano promesso che la sua casa sarebbe stata pronta un anno fa.
La gente ha provato a trovare una nuova normalità, ma adesso è tornata la paura: negli ultimi mesi uno sciame sismico ha portato una nuova ondata di scosse che hanno messo tutti in allerta, tra le quali una di magnitudo 3.6 proprio quando eravamo là (ma che io non ho sentito). Il giorno dopo abbiamo fatto il giro a parlare con la gente: tutti ne parlavano, erano angosciati; il centro è stato chiuso completamente, perchè gli edifici sono solo puntellati e rischiano ancora il crollo, un paesino è stato evacuato e alcuni hanno ricominciato a dormire in macchina. Giuliani, che aveva previsto il terremoto del 2009, sostiene che c'è il rischio di un'altra forte scossa; alcuni con cui ho parlato quasi speravano che arrivasse subito: come si fa a ricostruire se tutto può crollare di nuovo?

E' difficile comprendere davvero la tragedia del terremoto, per noi che non l'abbiamo vissuto in prima persona. Ma mentre camminavo nell'unica strada aperta, fiancheggiata dalle transenne, e guardando in alto sembrava che gli edifici avessero pareti invisibili, perchè si vedeva l'interno delle stanze, con tutti gli oggetti rimasti dov'erano quella notte; mentre buttavo l'occhio aldilà della recinzione arancione flash, che delimita il vuoto lasciato da quella che era la Casa dello Studente; mentre leggevo le locandine di film usciti più di un anno fa, ho provato a immaginare come sarebbe stato se tutto questo fosse successo a Bologna, alla mia città, la città che amo.
Ho pensato che se mi fosse andata fatta bene, se i miei cari fossero tutti sopravvissuti, se la mia casa fosse rimasta in piedi, anche così avrei perso per sempre un pezzo di me e della mia vita. Mi vedo camminare per via Rizzoli, guardandomi intorno: le facciate dei palazzi sono puntellate da travetti di legno e acciaio, il fondo stradale lastricato è sollevato in più punti, come un'onda congelata; andando avanti, do un'occhiata a sinistra: piazza Nettuno è vuota, un silenzio irreale svuota lo spazio, la Salaborsa è chiusa e comunque ormai non ci sono più studenti a cui possa servire. Anche piazza Maggiore è inagibile. Provo ad avvicinarmi alle transenne e tutto quello che vedo è un cumulo di macerie; anzi no, la facciata di San Petronio è ancora in piedi... è tutto il resto della chiesa che non c'è più. Basta, basta così, fa già abbastanza male, non serve vedere altro. Tornando sui miei passi l'occhio segue la linea della strada: una strana sensazione, qualcosa non quadra. Mi blocco, ho capito: le Due Torri sono crollate, al loro posto ci sono due moncherini circondati da detriti, come due mozziconi di sigaretta spenti nelle loro stesse ceneri. Capisco quanto erano importanti tante piccole cose che davo per scontate, il sabato sera in via Zamboni, i pomeriggi passati a gironzolare nelle viuzze del centro, l'atmosfera ovattata e surreale della biblioteca; a ogni luogo erano legati dei ricordi, che adesso sono irriconoscibili sotto la polvere di cemento. I miei amici non li vedo quasi mai, molti se ne sono andati, alcuni per sempre. Non c'è più vita, non c'è futuro qui.

Questo è l'unico modo che ho trovato per sentire, anche solo per un istante, quello che dev'essere stata la quotidianità dei cittadini aquilani da quella notte. La speranza di questa città ha un tempo limitato, tutto deve ripartire in questi primi anni, prima che la gente si costruisca una nuova vita da un'altra parte. Non so, davvero, cosa possiamo fare noi, se non testimoniare quello che abbiamo visto, tenerci informati sugli sviluppi e appoggiare tutte le iniziative che possano donarle al più presto un nuovo volto, aiutando chi, nella rassegnazione generale, non ha ancora gettato la spugna.

M. Chiara

mercoledì 22 settembre 2010

L'Aquila, l'ultimo custode della città distrutta - Un'analisi sul terremoto e sui danni della politica

Commento su La Repubblica di un libro di Erbani sull'Aquila: Disastro...

Il racconto parte dalla notte del 6 aprile 2009 e arriva fino ad oggi. Passando per le speculazioni degli affaristi, le new town, il rischio di diventare come Pompei. ll silenzio non mi fa paura. Mi fa paura la città che muore. In poche ore, dopo il sisma, 45 mila persone sono scomparse dalla città. Da oltre un anno sono l´unico abitante del centro storico». Raffaele Colapietra, anni 80, una vita passata a insegnare storia all´università di Salerno, è il simbolo di un´Aquila che dopo il terremoto ha difeso la propria identità e cercato un futuro. È anche il “testimone chiave” de Il disastro. L´Aquila dopo il terremoto: le scelte e le colpe, scritto da Francesco Erbani, edizioni Laterza. Questa almeno l´impressione, dopo la lettura delle 164 pagine. Il racconto parte da quella notte del 6 aprile 2009 e arriva ai giorni nostri. Ci sono la morte e il dolore, «la cricca» che ride, gli affari, le new town che sorgono e deturpano le campagne e le montagne, i vecchi che negli hotel della costa e del Gran Sasso aspettano un ritorno a casa che non arriverà mai. Ma il professor Colapietra resta sempre “dentro”, e anche quando Francesco Erbani scrive del Friuli e dell´Irpinia, delle scelte fatte in questi luoghi lontani, viene naturale chiedersi: che direbbe, il professore?
Un appartamento a piano terra, in un palazzina bassa costruita a metà del Novecento. Questo il “fortino” di Raffaele Colapietra, il suo punto di osservazione di una città che rischia di diventare come Pompei. «Per cacciarmi hanno minacciato di usare la forza. Sono venuti quelli della Protezione civile e i vigili del fuoco. Un giorno mi hanno mandato anche uno psicologo. Ma io ho detto: il terremoto non c´è più, resto qui». Dalle finestre la vista del Gran Sasso e delle altre abitazioni abbandonate. «Molti di questi edifici con pochi soldi si sarebbero potuti riparare fin da subito. Tanta gente avrebbe potuto tornare a casa a giugno, luglio o anche a settembre del 2009. Quanti soldi avrebbe potuto risparmiare lo Stato che invece manteneva migliaia di persone negli alberghi di Giulianova o a Lanciano? E che valore simbolico avrebbe avuto il rientro in città di cento, cinquanta o anche solo dieci famiglie?». Ha continuato a lavorare, il professore. Dopo il sisma ha scritto, assieme a Mario Centofanti, Aquila, dalla fondazione alla renovatio urbis. Della propria città conosce ogni pietra e ogni documento. Quando esce, per mangiare un boccone in un hotel ancora pieno di sfollati o per comprare il cibo per i suoi gatti, cerca di non vedere i turisti del macabro. «In centro ora si vede molta più gente di un anno fa, ma sono tutti con il naso all´insù, guardano i palazzi crepati, vengono anche gruppi di turisti con la guida. Contemplano. Ecco, il centro dell´Aquila diventerà una struttura da contemplare».
Chi conosce la storia non accetta l´impotenza di oggi di fronte a chi, venuto da fuori, vuole decidere il futuro della città. «Il 2 febbraio 1703 ci fu un devastante terremoto ma l´Aquila non fu sgomberata. Quindici giorni dopo il sisma nella piazza del mercato c´erano già cinquanta baracche con commercianti e artigiani. Una baracca ospitava il Comune e lì venne eletto il nuovo sindaco, essendo il precedente morto sotto le macerie. Ho trovato io il documento. Poi fu nominato un vicario generale addetto alla ricostruzione, Marco Garofalo della Rocca, che già a maggio se ne andò perché i cittadini avevano avviato da soli la riedificazione dei palazzi. Per dieci anni restò in vigore l´esenzione fiscale e il centro fu ricostruito integralmente».
All´Aquila sono invece arrivate le new town, le «case di Berlusconi», e la città è stata trasformata in un set con mille luci per raccontare all´Italia e al mondo le magnificenze del governo. Francesco Erbani racconta ogni momento di questo angosciante post-terremoto, iniziato con le risate di chi, a Roma, già sperava di fare affari. Racconta una città che ha consegnato le proprie chiavi a una Protezione civile che ha deciso di decidere tutto. Ha ascoltato chi, nei sismi precedenti, ha compiuto scelte completamente diverse. Ha ricordato le frasi di chi veniva a promettere miracoli. «La new town sarà un ghetto? Macché. Sarà un quartiere nuovo per giovani senza casa. Le case distrutte, invece, saranno tutte ricostruite. Andate a vedere Milano 2 e Milano 3 e poi ditemi se sono ghettizzati (Silvio Berlusconi nel giorno dei funerali)». I risultati si sono visti. «I bambini dell´Aquila – dice il professor Colapietra – cresceranno senza sapere com´era fatta la loro città».

J. Meletti

Diamoci la carica: scuola, studio e vita – 21/IX/2010

Matteo 25, 14-30
14 «Poiché avverrà come a un uomo il quale, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e affidò loro i suoi beni. 15 A uno diede cinque talenti, a un altro due e a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità; e partì. 16 Subito, colui che aveva ricevuto i cinque talenti andò a farli fruttare, e ne guadagnò altri cinque. 17 Allo stesso modo, quello dei due talenti ne guadagnò altri due. 18 Ma colui che ne aveva ricevuto uno, andò a fare una buca in terra e vi nascose il denaro del suo padrone.
19 Dopo molto tempo, il padrone di quei servi ritornò a fare i conti con loro. 20 Colui che aveva ricevuto i cinque talenti venne e presentò altri cinque talenti, dicendo: "Signore, tu mi affidasti cinque talenti: ecco, ne ho guadagnati altri cinque". 21 Il suo padrone gli disse: "Va bene, servo buono e fedele; sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore".
22 Poi, si presentò anche quello dei due talenti e disse: "Signore, tu mi affidasti due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due". 23 Il suo padrone gli disse: "Va bene, servo buono e fedele, sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore".
24 Poi si avvicinò anche quello che aveva ricevuto un talento solo, e disse: "Signore, io sapevo che tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; 25 ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra; eccoti il tuo". 26 Il suo padrone gli rispose: "Servo malvagio e fannullone, tu sapevi che io mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; 27 dovevi dunque portare il mio denaro dai banchieri; al mio ritorno avrei ritirato il mio con l'interesse. 28 Toglietegli dunque il talento e datelo a colui che ha i dieci talenti. 29 Poiché a chiunque ha, sarà dato ed egli sovrabbonderà; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. 30 E quel servo inutile, gettatelo nelle tenebre di fuori. Lì sarà il pianto e lo stridore dei denti".

Riflessione e silenzio



“L'aspetto più sconcertante della vostra scuola è che vive fine a se stessa. Anche il fine dei vostri ragazzi è un mistero. Forse non esiste, forse è volgare. Giorno per giorno studiano per il registro, per la pagella, per il diploma. E intanto si distraggono dalle belle cose che studiano. Lingue, storia, scienze, tutto diventa voto e null'altro. Dietro a quei fogli di carta c'è solo l'interesse individuale. Il diploma è quattrini. [...] Per studiare volentieri nelle vostre scuole bisognerebbe essere arrivisti a 12 anni."

(Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa)

La scuola è diversa dall'aula di tribunale. Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l'arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (e in questo somiglia alla vostra funzione), dall'altro la volontà di leggi migliori cioè di senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione)."
(don Milani, Lettera ai giudici, 18.10.1965, in L'obbedienza non è più una virtù)




Riflessione: aggiungere due parole, soprattutto al primo brano di don Milani è necessario. La situazione della lettera alla professoressa è nota: i ragazzi della scuola di Barbiana, dopo essere stati bocciati agli esami scolastici, scrissero in questo testo famosissimo le differenze tra come si intendeva la scuola pubblica e come era la loro scuola. La Lettera è d'una bellezza sconcertante, sia perché è capace di evidenziare tutti i limiti della scuola, e nel brano riportato questi limiti sono ben evidenti, sia perché si nota la grandissima abilità delle classi più umili (i figli di contadini) di raccontarsi e di spiegare come pochi altri hanno saputo fare il motivo per cui esiste la scuola. Si va a scuola per imparare, non per essere promossi o bocciati: il voto è una conseguenza di quello che lì si è fatto. Preoccuparsi solo del voto significa, oltre a tutto, pensare solo a se stessi, non aver colto il significato profondo della scuola, che è quello di imparare assieme, di essere comunità e di aiutarsi gli uni con gli altri.
Sapere questo e ricordarselo all'interno della festa della Comunità è un passaggio decisivo per vivere diversamente la scuola, per portarvi quella differenza cristiana, per portarvi quello che riceviamo dall'essere Comunità in parrocchia. Per portare quella serenità e quella carica che non troviamo in noi stessi, ma che gratuitamente riceviamo e possiamo mettere a disposizione per gli altri.
Detto questo, forse, studiare volentieri diventa possibile, perché non si studia più solo per primeggiare sugli altri o per vincere la competizione con insegnanti distanti da noi; non prevale la rabbia per insegnamenti noiosi, ma ci si può interessare di tutte le cose. Fino a capire che a scuola, conoscendo - e sbagliando - si impara a conoscere se stessi, a crescere con gli altri e a differenziarsi dagli altri senza aver paura di non dire la propria idea, bensì esprimendola con i dovuti modi a fratelli e non ad estranei.

La riflessione è solamente iniziata... 

sabato 18 settembre 2010

Servire nella gioia - Campo a L'Aquila

Cos'è una città? Non L'Aquila. Girare per l'unica strada aperta del centro e vedere i segni del terremoto: le crepe e gli sfregi, i pali e i tiranti che sorreggono ciò che resta dei palazzi, spiare dalle vetrine gli interni pieni di macerie, non può che confermare quella risposta. Allora c'è bisogno. Allora si può andare a dare una mano. Allora si può sentire dalla Caritas per organizzare un campo di servizio con un gruppetto di ragazzi al seguito.
Si parte, quindi, con le proprie buone intenzioni e le proprie convinzioni, sperando di poter fare finalmente qualcosa di utile e di sentirsi importanti. Poi qualcosa succederà. In realtà è avvenuto molto di più.

I primi giorni sono stati duri perché pareva di essere in un mondo a parte e nel campo Caritas regnava la disorganizzazione più totale; perché avevamo abbandonato le nostre comodità e la sveglia alle 6 e la fila al bagno-container non facilitavano il risveglio; perché non conoscevamo nessuno; perché i lavori sembravano scelti a caso: non erano i più urgenti, né i più rilevanti, a occhio lo si capiva. E, soprattutto, dov'era la popolazione?
Eravamo pesci fuor d'acqua, in un ambiente diverso e in cui non sono più io a gestire l'impiego del mio tempo, ma un altro dalle dubbie qualità: capitava di stare fermi per 2 ore senza far nulla e poi dover fare una cosa senza che nessuno te ne spiegasse il perché. Eppure l'aria era buona e una certa luce di contentezza nei volontari contenti accendeva la nostra speranza; se tutti tornano a casa con la voglia di ritornare all'Aquila, un motivo ci dev'essere, basta cercarlo bene e vivere pienamente dando tutto se stessi in ciò che ci veniva chiesto.
Ci si accorgeva di come le cose, al di là di tutto, funzionassero, come se si potesse avvertire la presenza di una mano provvidenziale che aiutava e mandava avanti la baracca (nel vero senso della parola). E piano piano, nell'accorgerci che ogni responsabilità acquista valore quando guidata dallo Spirito, anche per noi il clima è cambiato.
Abbiamo smesso di notare solo la disorganizzazione, perché gestire da 15 mesi un campo che ospita fino a 500 persone alla volta in una situazione di emergenza in cui sono tantissime le cose da fare e le persone da incontrare, non è come decidere se fare i compiti al pomeriggio o restare a dormire ancora un po'. Abbiamo smesso di pensare che fosse una fatica inutile. Abbiamo iniziato ad ascoltare i racconti dei volontari fissi, cioè di coloro che sono lì dall'inizio e che ormai conoscono tutto del luogo. Ci siamo accorti che servire non è arrivare in un posto e voler porsi subito al centro dell'attenzione accentrando su di sé gli sguardi nel mostrare i propri meriti; abbiamo capito che per servire occorre mettere da parte il proprio orgoglio e predisporsi a svolgere compiti umili, spesso all'apparenza non utili e non appaganti.
Sono, in realtà, lavori che servono e che nessun altro farebbe, come spazzare l'interno di una chiesa semi-distrutta e che, per forza di cose, occorrerà pulire ancora il giorno successivo, quando migliaia di fedeli verranno in visita; come tagliare le sterpaglie nelle scuole-capannoni che hanno ricostruito dopo che delle vecchie non sono rimaste che pietre; come ripulire i vialetti dei piccoli borghi dall'erba che s'insinua tra i sanpietrini. Non sono lavori inutili, e i comuni non hanno soldi per appaltarli a qualcun altro, perché permettono di ristabilire quella quotidianità che il terremoto ha spazzato via.

E questo servire produce gioia, ce se ne accorge facilmente nei ringraziamenti degli anziani che si va ad incontrare, negli sguardi di chi capisce che non sei a L'Aquila solo per turismo, o impegno politico o per lavarti la coscienza dopo un'estate di gozzoviglie. La gioia è anche personale, non solo provocata dalla gratitudine altrui; ed è nello stare insieme durante le giornate sia svolgendo i diversi lavori, sia ritrovandosi la sera per la messa, la cena e la serata. È data dalla presenza ordinatrice di Dio che, nella preghiera, dà qualità al nostro faticare la giornata e rendendoci comunità, ci rende famiglia e ci fa essere felici in ciò che facciamo. Servire nella cornice della preghiera, infatti, «è vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze e delle perplessità; allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prende più sul serio solo se stessi, ma si vive davvero, allora si veglia con Cristo nel Getsemani»: questa è la fede e servire nella gioia a L'Aquila ci ha mostrato questa via a Gesù.
Le nostre buone intenzioni sono mutate e le nostre convinzioni si sono rivelate monche o fallaci; da come eravamo partiti torniamo a casa con un'esperienza di vita: abbiamo visto come nel servire ci sia la vita, e come possa essere una vita di gioia.

Martedì: Diamoci la carica



Martedì ore 17.30, e poi si resta lì tutta la sera...

martedì 14 settembre 2010

Appuntamenti Festa della comunità

Venerdì 17, ore 20.00 festa dell'associazione Albero di Cirene (aperitivo, cena multietnica, stand e concerto). 
Sabato 18, ore 21 spettacolo per i 25 anni della Festa della comunità...

Domenica 19, ore 11.00 S. Messa dei giovani!!! segue il pranzo tutti assieme (mi dovete confermare la presenza il prima possibile): come l'anno scorso è un bell'appuntamento e una bella occasione di passare assieme una domenica mattina. Cerchiamo di esserci. Il primo è offerto e ognuno di noi dovrà portare un secondo.

Martedì 21, ore 17.30 breve momento sulla scuola. A seguire siamo a disposizione in cucina: è la serata in cui siamo noi a cucinare, quindi dobbiamo esserci e dobbiamo ricordarci di invitare più gente possibile!!!

Giovedì 23, ore 21.00 momento di adorazione in chiesa!

Domenica 26, ore 17.30: raduno e serata delle dopo-campo. Possiamo invitare sia quanti di Bologna e dintorni che abbiamo conosciuto a L'Aquila, sia i nostri compagni dei campi degli anni passati.

La festa della comunità non è solo i nostri appuntamenti, ma tanti altri momenti che vi invito a cercare nel foglio della settimana. Vi ricordo che saranno organizzati tornei sportivi di vario genere e che ogni serata avrà una sua presentazione diversa con cena. Vi invito a partecipare anche ai momenti più riflessivi, anch'essi fanno parte del nostro essere comunità.

Ciao