lunedì 22 dicembre 2008

L'IO

Questo personaggio non compare mai nel presepe: non c'è, ma dovrebbe esserci.
Normalmente sta fuori, a fare da spettatore più o meno interessato, coinvolto non più di tanto, a osservare e giudicare: attento a non esporsi troppo.
Invece deve abbandonare la comoda posizione e diventare protagonista attivo per vivere davvero il Natale. Vivere la propria parte, non recitarla.
Occorre recuperare la gioia e scoprire la novità del Natale; entrarci da bambino che sa stupirsi, per cogliere veramente quella felicità del cuore propria di ogni Natale.
Un guaio, neppure troppo nascosto, mi impedisce di vivere la novità del Natale: il risaputo.
Io purtroppo so cos'è il Natale; mi illudo di sapere come deve essere. So quando arriva (sempre più con largo anticipo, perché le luminarie natalizie si accendono sempre prima) e quanto dura (per lasciare il posto ad altre cose che premono).
Chi l'ha vissuto la prima volta, invece, aveva la fortuna di non sapere di che cosa si trattasse, che cosa fare e cosa sarebbe successo dopo. Maria e Giuseppe non sapevano cosa fosse il Natale, lo stesso i pastori, o Erode. L'avvenimento li ha colti alla sprovvista. Hanno dovuto interrogarsi, chiedere, scegliere; ma non sono stati loro a decidere che cos'era il Natale e in che modo andava vissuto. È stato un Altro a decidere.
Noi sappiamo già tutto in partenza. Il nostro Natale è già deciso, programmato, fissato, pre-fabbricato, ma nulla è autentico o in linea con il copione evangelico.
In un cassetto dell'armadio c'è la scatola del presepe. Basta recuperarla, montare i vari pezzi, piazzare al loro posto i personaggi e aggiungere qualche marchingegno nuovo; lo stesso per l'albero.
Si passa dai negozi con la lista della spesa; ci si taglia i capelli; si sceglie l'abito giusto. Si indossano i sentimenti propri di ogni Natale: un po' di nostalgia, un po' di bontà...
Infine si fa una capatina in Chiesa per la Messa di mezzanotte, sperando che non vada per le lunghe.
Il Natale funziona, come previsto.
Cioè non funziona. È come un disco che si inceppa e ripete lo stesso ritornello. Si tratta di un Natale decrepito, logoro, usurato anche se levigato di modernità. Un Natale senza sorprese. Il solito ritornello. Recitato più che vissuto.

Ma cosa succederebbe se non trovassimo più il presepe? Se sparissero le statuine dei pastori. Se il bue e l'asinello si fossero posti in salvo in qualche parco. Se Giuseppe non fosse disponibile, perché lavora fuori città. Se Maria non avesse tempo. Se gli angioletti fossero colpiti da improvvisa raucedine. Se Erode fosse in vacanza o impegnato in qualche vertice internazionale. Se i Magi si fossero smarriti per strada.
Se avessimo rotto le chiavi della cassaforte coi gioielli. Se avessimo dimenticato i jeans di marca in lavanderia. Se i negozi risultassero inspiegabilmente chiusi. Se il mercato avesse esaurito i tortellini. Se i giornalisti non scrivessero più nulla del Natale.
Mi verrebbe in mente che basto io? Che il presepe sarebbe completo anche con la mia sola presenza accanto al Bambino?
Quale fortuna se avessimo smarrito o disimparato il senso del Natale, se fossimo costretti a scoprirlo seguendo la sobria pagina di Luca (2, 1-20). Capiremmo che il Natale non sono i doni. Sospetteremmo che il Natale è altro. Ci apriremmo all'inedito di un Dio che si fa uomo; ci renderemmo disponibili alla sorpresa. Aspetteremmo un Gesù Bambino che non siamo noi, perché il protagonista del Natale è un Altro.

venerdì 19 dicembre 2008

Intervista di dodici anni fa

Tiziano Terzani: Sullo sviluppo della scienza? E' pessimista od ottimista?
Agnelli: Tutt'e due. Personalmente sono ottimista. Sono affascinato dal progresso, al momento per esempio del progresso nel settore dell'informazione.
T.T. Io poco invece. Ho l'impressione che più informazioni abbiamo, più siamo ignoranti. Uno dei libri più sconcertanti che ho letto recentemente è stato quello di Bill Gates, La strada che porta al domani. A ogni pagina mi veniva in mente quella bella frase di T.S. Eliot: "Dov'è la vita che abbiamo perso vivendo? Dov'è la saggezza che abbiamo perso con la conoscenza? Dov'è la conoscenza che abbiamo perso con l'informazione?" Internet è come una droga.
Agnelli: Non è vero. Si tratta di scegliere l'informazione, il modo di usarla. Il progresso dell'informatica ci permette nuove libertà. E' magnifico.
T.T. Il prezzo di questa positività è che la gente passa sempre più tempo davanti ai computer e sempre meno con altra gente. I giovani giocano più con un computer che con un amico.
Agnelli: Un modo ottimistico di vedere il mondo, sarà pensare che mediante i computer e internet, si potrà lavorare da casa e passare più tempo a contatto con la propria famiglia.
T.T. Il lavoro di cui parliamo è il lavoro dell'intellettuale, il lavoro di un'élite. Chi produce dovrà continuare ad andare in fabbrica. Il computer non aiuterà la maggior parte delle persone.
[...]
T.T. A me preoccupa vedere nuove generazioni che in quel tipo di società crescono imparando sempre più a programmare e sempre meno a pensare. Non si può contare su gente che crede di poter risolvere tutto con il software. I giovani devono studiare filosofia... Se la società del futuro è quella in cui l'uomo è solo un anumale economico, allora siamo al tramonto della nostra civiltà!
Agnelli: Al momento può apparire che le cose stiano così, può sembrare che l'economia si la cosa che gestisce il mondo e che non ci sia niente al di sopra di essa. Ma non può essere sempre così, e io sono convinto che altri valori fondamentali torneranno a imporsi e che la religione avrà in questo un ruolo importante perché dovrà reinterpretare le esigenze della società.
T.T. E la politica?
Agnelli: Al momento in Europa vedo un grande vuoto politico. Siamo gestiti più o meno bene, con criteri puramente econcomici definiti dal trattato di Maastricht, dieci banchieri centrali che obbligano a rispettare quel trattato. Toccherebbe a politici veri, a politici con idee nuove, nuove soluzioni. Purtroppo siamo in mano a gente vecchia...

domenica 14 dicembre 2008

Cercando di riassumere: l'uomo ha bisogno di senso

Cercando di dire qualcosa sulla fede (i punti riassumono molto):

1. l'uomo cerca di dare un senso alla propria vita: "niente caratterizza tanto bene l'uomo come il fatto che egli interroga; ciò lo distingue da tutti gli altri esseri che conosciamo: L'uomo è l'esistente che pone la domanda dell'essere". E' significativa già questa ricerca di per sé, perché "l'uomo ha bisogno di una parola, di una promessa, ha bisogno di un senso". L'uomo cerca di dare un senso perché si accorge che la vita si confronta con la morte (Essere e Non-Essere), col dolore e con un mondo che non ha il significato che vorremmo attribuirgli (quanti dilemmi abbiamo?).

2. Per il tipo di risposta offerta dal cristianesimo, è difficile considerarlo una religione (1 Corinzi 8, 4-6). Perché non nasce semplicemente da una risposta solo umana agli interrogativi; è la necessità di un contatto con Dio, ma è un atto con cui, per dono di Dio ci si affida a lui e si acconsente alla sua rivelazione! Non è l'uomo che cerca Dio, ma è Dio che cerca l'uomo e che si fa conoscere ad esso, invitandolo a credere in lui e ad amarlo. La preghiera cristiana è lode a Dio, è contrassegnata dall'amore, dalla fiducia e dall'abbandono filiale, non dalla richiesta. Il culto non è una cerimonia religiosa, ma l'offerta di se stesso a Dio, non nel senso sacrificale (l'unico sacrificio gradito a Dio è quello del Figlio), ma nel senso dell'amore.
Il cristianesimo non è la nostra costruzione del divino a nostro piacimento, non è l'Eritis sicut dei (sarete come dei): cioè il tentativo instillato nell'uomo dal serpente di mettere le mani su Dio; il cristianesimo è la presenza di Dio come tale, come uomo. L'incontro con Dio è reso possibile dalla Grazia purificatrice, che agisce nella storia nel sacrificio di Gesù Cristo: c'è ancora una grazia, un dono. Il cristianesimo è religione per le forme religiose nelle quali si incarna, ma per i contenuti no, perché non seguono i desideri dell'uomo, ma sono sovra-umani: la parola di Dio rivelata, nella quale si fa conoscere all'uomo nel suo inaccessibile mistero e alla quale l'uomo risponde con la fede.

3. La fede è quindi un incontro (1° Giovanni 1, 1-4) di rivelazione, di fiducia, di credenza. Avverto la presenza dell'altro nel momento in cui credo, in cui rispondo alla chiamata: l'iniziativa è di Dio (Ebrei 1, 1-12). La fede è comunione: ad un'azione di Dio, corrisponde una reazione dell'uomo.

4. Il gesto della fede è l'Amen, inteso come appoggiarsi a qualcuno con fiducia ed abbandono: credere significa dire amen alle parole, alle promesse, ai comandamenti di Dio; amen che è impegno totale, conoscenza teoretica e pratica della volontà divina e della sua totale validità.

5. La fede proviene dall'udire, dall'accoglienza: in seguito dal riflettere. Perché si accoglie una Parola che è vita, si acconsente al reale e salvifico fatto della resurrezione di Gesù.

6. La fede è un dono: l'iniziativa è sempre di Dio, è una grazia interiore: PASSA ATTRAVERSO DI NOI!!! (Mc 9, 24)

7. La fede è un atto libero, è una scelta decisiva: un'opzione fondamentale.

8. E' un atto intimo, perché si esce dalla superficialità della vita, ma ci interroga nel nostro profondo. Riguarda, quindi, tutte le facoltà umane, la ragione, la volontà, la dimensione affettiva (estetica, etica, ratio).

9. La fede è Ragionevole: bnoi non crediamo per delle ragioni, ma abbiamo delle ragioni per credere; vi sono ragioni esterne, interne. La più forte di tutte è che solo l'amore è credibile. Inoltre permette di vivere la presenza di Dio in noi...

9. Il credo (Niceno-C.; Apostolico), la preghiera con cui si riassume la fede della Chiesa, è detto anche Simbolo: il piattino rotto: il coccio che si ricollega con gli altri cocci del vasellame spezzato. Insieme rende verità della Chiesa: "ogni uomo ha tra le mani la fede solo come 'symbolon', come pezzo imperfetto e monco, suscttibile di ritrovare la sua unità o integrità solo nella giustapposizione agli altri. Solo nella reinserzione con gli altri puà verificarsi la completa realizzazione". Io posso non consentire, mancherà il mio pezzo. Posso far fatica, ma questo è un altro discorso.

10. La fede è Sequela di Cristo, è missione.

11. La fede è salvezza, è liberazione dal peccato (dalle situazioni in cui siamo irrealizzati, in cui siamo imperfetti), è amore.


Sono punti molto brevi, che aprono a numerosi interrogativi, sia sul proprio contenuto, che per tutto quello a cui rimandano. Ovviamente potete e dovete scrivervi tutti gli interrogativi che vi vengono, così che possiamo parlarne assieme...

domenica 30 novembre 2008

E' uscito il nuovo numero dell'Albero

E' uscito il numero di Natale, con tante cose interessanti (se cliccate sulle immagini, si ingrandiscono...): vi consigliamo di prenderlo!!!


mercoledì 12 novembre 2008

La scuola, le proteste e la verità sulla riforma

Venezia agli albori del Novecento conobbe il primo sciopero generale spontaneo della sua storia. La manifestazione in piazza S. Marco indetta dai nascenti sindacati vide, però, una partecipazione preponderante di donne. La ragione di questa presenza, straordinaria e sorprendente per l' epoca, risiedeva nel fatto che la protesta era scoppiata per un motivo davvero singolare: una puerpera era stata costretta a partorire, senza soccorso, sui gradini dell' Ospedale Maggiore, all' aria aperta. Il fatto venne assunto a simbolo di qualcosa di molto più generale: l' insopportabilità dell' assenza, al di fuori delle opere di carità cattoliche, di qualsiasi forma di pubblica assistenza. Il Welfare State era, infatti, al di là da venire. Questo lontanissimo episodio mi è venuto alla mente riflettendo sulla tumultuosa e massiccia protesta del mondo della scuola dilagata in questi giorni in tutta Italia in odio al decreto Gelmini.
Eppure quel decreto, tradotto ora in legge, non conteneva minacce tanto dirompenti da giustificarne il crucifige, anche se su un punto - il maestro unico alle elementari e le diminuzioni di insegnanti che ciò implica - meritava un ripensamento di fondo, di cui parleremo più avanti. L' avversione al decreto, potenziata dalle prepotenti quanto sciocche minacce berlusconiane, si è invece caricata di ben altri significati - appunto come quel parto davanti all' ospedale - e ha dato alle manifestazioni studentesche motivazioni assai più ampie, pur se confuse, che spaziavano dalle elementari all' Università. Comunque, tra tutte, la più forte, in parte giusta e in parte sbagliata, è stata quella contro tutti i tagli previsti (non dalla Gelmini ma dalla Finanziaria, approvata senza che nessuno fiatasse tre mesi orsono).
Di tutto questo si è appropriata l' opposizione e non è pensabile che facesse altrimenti.
Assurdo, quindi, ogni biasimo sulla carenza di fair play riformista, dimostrata in questa contingenza da Walter Veltroni. Quel che per contro potrebbe essere rilevata criticamente è l' assunzione, senza beneficio d' inventario, della proteiforme nebulosa protestataria, rinunciando in partenza ad un intervento per darle uno sbocco razionale e positivo, interpretando il disagio reale della scuola, ancorché sotteso a slogan inconsistenti, studiando e scegliendo obiettivi possibili e immediati, quanto prospettando mete di riordino a più lungo termine.
Così non è stato.
Alcun ascolto ha trovato, inoltre, l' appello di Giorgio Napolitano, pronunciato all' apertura dell' anno scolastico, perché si affrontassero con «senso della misura e realismo le questioni più spinose, compresi gli impegni finanziari... L' Italia - specificava per maggior chiarezza il Capo dello Stato - nel suo stesso vitale interesse deve ridurre a zero nei prossimi anni il suo deficit pubblico... nessuna parte sociale e politica può sfuggire a questo imperativo ed esso comporta anche - inutile negarlo - un contenimento della spesa per la scuola... l' obbiettivo non può prevalere su tutti gli altri e va formulato, punto per punto, con grande attenzione, in un clima di dialogo. Ma ciò non può risolversi nel rifiuto di ogni revisione necessaria a fini di risparmio».
La risposta non poteva essere più deludente: Berlusconi ha inteso l' invito al confronto come un incentivo alla minaccia poliziesca, Veltroni ha preferito la deriva populista di facile presa ma scarsa prospettiva, ribadendo un No preclusivo a tutti i tagli e annunciando un discutibilissimo referendum anti-Gelmini, peraltro improponibile in materia finanziaria. Per contro era possibile avanzare contro proposte convincenti sia sul maestro unico e sugli sprechi, elencati voce per voce in un dossier di «TuttoscuolA», l' ottima agenzia indipendente che su Internet monitorizza quotidianamente la vita scolastica.
Il decreto Gelmini, peraltro, nel suo impianto globale si muoveva esplicitamente lungo il solco della correzione di rotta già impresso da Fioroni e Bastico, ministro e vice ministro del governo Prodi, per riportare un minimo d' ordine e di serietà negli studi. Lo prova le lettura degli otto articoli della legge che riguardano nell' ordine l' introduzione dell' insegnamento su «Cittadinanza e Costituzione», la conferma della revisione anti-bullismo dello Statuto degli studenti, messa a punto da Fioroni con la valutazione in pagella e in sede di scrutinio finale del comportamento, un tempo chiamato «condotta», la misura in decimi del voto, la necessità di conseguire almeno la media del 6 per la promozione e l' ammissione all' esame di Stato, l' obbligo per gli editori di adottare libri di testo validi per cinque anni, così da non costringere le famiglie a continui esborsi per inutili aggiornamenti, l' abilitazione all' insegnamento nelle scuole elementari e dell' infanzia per chi abbia ottenuto la laurea in scienza della formazione primaria, infine una modifica delle norme di accesso alle scuole di specializzazione medica. Veniamo al contestato articolo sul maestro unico che, in realtà, sarebbe più giusto definire come una disposizione sul tempo-scuola, ridotto a 24 ore settimanali, come era fino al 1990. Qui incidono i tagli destinati a risparmiare su precari-supplenti. Ma, per un giudizio motivato, è utile ricordare cosa si proponeva la riforma della mitica ministra Falcucci, dc doc mai abbastanza rimpianta. Per ampliare il ventaglio di conoscenze già nell' età infantile e, ad un tempo, per consentire al più gran numero di madri di entrare nel mercato del lavoro, venne deciso di procedere gradualmente e attraverso sperimentazioni e verifiche a una modifica radicale, portando inizialmente l' orario normale da 24 a 27 ore e, via via a 30, mano a mano che le scuole si mettevano in grado di assumere un insegnante per la lingua straniera, la cui introduzione era il vero clou della riforma. Questo avrebbe comportato due ritorni pomeridiani la settimana o l' organizzazione di una mensa scolastica ad opera dei Comuni. Un servizio indispensabile nel momento in cui andava a regime il secondo pilastro della riforma, un tempo pieno di 40 ore settimanali, compresa la pausa pranzo. Anche l' insegnamento variava di tenore tra le lezioni mattutine e le attività pomeridiane. Fu una stagione di forte innovazione pedagogica - come rievoca sul suo blog Marco Rossi-Doria, fondatore del movimento dei «maestri di strada» nei Quartieri Spagnoli di Napoli - generata da molti fattori, dalla spinta all' accesso al lavoro di nuove generazioni femminili in un contesto economico in evoluzione all' esigenza di aprire un fronte precoce contro l' analfabetismo che nasce dalla povertà e la genera a sua volta, largamente diffuso nel Mezzogiorno.
L' idea di più docenti per classe nacque dalla verifica delle urgenze educative enormi che il Paese cominciava a sentire, ma la loro progressiva introduzione era stata immaginata e sperimentata come una costellazione che, soltanto dalla terza elementare in poi, avrebbe ruotato attorno alla figura-chiave della maestra centrale (i maestri sono solo il 4%) affiancata dagli insegnanti specializzati per la lingua straniera, l' educazione motoria e il sostegno ai disabili, liberati dalle classi differenziate, l' educazione musicale e artistica. Su questo impianto, mentre i Comuni dovevano assicurare le mense scolastiche, la riforma Falcucci prolungava l' orario e introduceva di massima i «moduli» di tre insegnanti per due classi, così da consentire il tempo pieno e una formazione più articolata, con «classi aperte». Solo a questo punto ci fu l' improvvido intervento negativo dei sindacati e di quasi tutto l' associazionismo cattolico e laico, sostenuto alla fine dal centro-sinistra e dal Pci. Fu un attacco volgare contro la «maestra chioccia», in nome dell' eguaglianza fra gli insegnanti, che divennero per legge tutti «contitolari» della classe.
Alla collaborazione fra docenti, che si svolgeva nelle «classi aperte» fra alunni di vario grado, una forma dell' autonomia che aveva cominciato a funzionare benissimo sulla base di un autentico rinnovamento pedagogico, si sostituirono «moduli» rigidi e decisi dal centro. In realtà questa organizzazione, che ingessò la riforma in una gabbia burocratica e aumentò l' organico oltre il necessario, venne suggerita non da valutazioni educative ma dalla paura che la curva demografica, segnata dal calo in pochi anni degli alunni delle elementari da quasi cinque milioni a 3.247.000, decurtasse inevitabilmente anche il numero degli insegnanti. Da qui, dunque, si poteva ripartire oggi per un confronto che recuperasse il senso profondo della riforma Falcucci, risparmiando dove era giusto ma senza annullare tutto con un tratto di penna. Non voglio, peraltro, ignorare l' impegno proclamato dall' on. Gelmini, secondo cui il tempo pieno, per chi già ne gode, non verrà scalfito. È una verità parziale che nasconde una realtà molto amara. La nuova legge, infatti, riduce le ore di scuola per i bambini dai 3 ai 10 anni e lo fa.... dove non c' è tempo pieno. Questo, infatti, non è distribuito egualmente nel territorio: a Milano copre l' 89,5% degli alunni, a Torino il 65,5, a Roma il 54,4 ma a Napoli solo l' 1,5 e in tutto il Sud non raggiunge il 9% delle scuole. La legge fotografa e congela questa situazione. I bambini e le mamme del Nord avranno il mantenimento delle risorse che saranno decurtate al Sud. Qui i bambini usciranno alle 12,30 già l' anno prossimo e l' effetto seguiterà a ricadere sulle madri meridionali, che tanto per il 62% sono fuori del mercato del lavoro. E Comuni e Regioni potranno seguitare a trascurare l' organizzazione delle mense scolastiche.

Un ultimo post scriptum: se invece di compiacersi del gran casino, l' opposizione riformista volesse avanzare delle controproposte in materia di tagli, perché non affrontare la possibilità di abolire, come in tutti i paesi europei, il quinto anno delle superiori e permettere ai giovani italiani di ottenere il diploma a 17 anni, come francesi, tedeschi e inglesi, invece di restare nei banchi fino a 18 ed avviarsi al lavoro o alle Università a 19?

M. Pirani

giovedì 30 ottobre 2008

Sul goal di Gilardino


Tratto dall'articolo di Michele Serra, Perché il calcio festeggia il gol fatto con la mano.

La mano di Alberto Gilardino non è la mano di Dio, ma non è nemmeno la mano del Diavolo: due modeste giornate di squalifica sono una pena di routine, commisurata a un "reato ambientale" (quello di carente lealtà sportiva) che di straordinario non ha proprio niente, per quanto è diffuso e soprattutto per quanto è accettato.
Ma il giudice sportivo - come molti giudici di questo paese - non è l' interprete più applaudito della "volontà popolare". Nelle cose del calcio e non solamente in quelle, l'idea che l'onesto sia un sognatore, e il furbo un pragmatico, ha le ali ai piedi. Lo so, siamo nel bel mezzo del luogo comune sugli italiani eticamente disinvolti, ma spesso i luoghi comuni germinano da sconsolanti evidenze: quanti tifosi, di qualunque squadra, sopporterebbero di perdere una partita perché uno dei loro eroi in maglietta confessa all' arbitro che il gol era irregolare? Chi salverebbe l'eventuale onesto dalle accuse di autolesionismo, di stupido eccesso di zelo, se in ogni piazza d' Italia c' è un modo diverso per dire la stessa cosa: pirla, ciula, fesso, mona, bischero.
La maldisposta opinione pubblica europea considera i calciatori italiani i più simulatori del pianeta, magari alla pari con altre anime latine come i sudamericani. Ruzzoloni recitati in area di rigore, gomitate di poco conto trasformate in colpi mortali, l'arbitro visto come un avversario da raggirare e mai come un' autorità da aiutare. Lo sputo di Totti e la testata di Materazzi, ci piaccia oppure no, sono in copertina nella chanson de geste del calcio quadricampione del mondo.
Il caso Gilardino (che durerà tanto quanto le due giornate di squalifica, cioè un batter di ciglia) non arriva dallo speciale malanimo di un atleta del quale tutti parlano bene, ma dall'assuefazione, dall'abitudine, dal "così fan tutti" che è da sempre, in ogni epoca e ad ogni latitudine, l'arma letale contro ogni esame di coscienza. Dall'idea che niente di così grave, in fondo, ci sia nel darsi un "aiutino", ghermire al volo l'attimo giusto per sgambettare la sorte, farla franca perché l'arbitro e i suoi assistenti non hanno visto, e l'unico testimone della scorrettezza commessa sei tu, il suo autore. La prova televisiva, a partita chiusa, e le domande insistenti dei cronisti, e il dibattito quasi sempre nervoso, quasi mai sereno, sono una conseguenza sgradevole ma arrivano solo a risultato acquisito, dopo la doccia, magari insieme al rincrescimento. Ma in campo, dove quello che si vede è l'istinto, è lo spirito profondo, la verità agonistica è un' altra: è la foga che porta a sorvolare sulle proprie colpe e a ingigantire a dismisura quelle degli altri, come nel gesto (sportivamente odioso, e mai punito) di invitare l'arbitro ad ammonire l'avversario. Eppure l'agonismo, per esempio nel calcio britannico dove ci si spolmona fino alla sincope, è anche altrove ottenebrante, almeno in potenza. Ma quasi mai sfocia nel colpo di mano, nella furbata, neanche la furbata istintiva, diciamo preterintenzionale come quella di Gilardino.
Grazie al satellite è diventato più semplice seguire i campionati stranieri e fare i paragoni. Arbitrare, lassù, è più semplice, le botte e i colpi bassi ci sono, ma manca quel contorno melodrammatico e attoriale che qui da noi spesso si prende la scena per intero. Manca quel tocco di leggera isteria, di fanatismo di fazione che da noi complica maledettamente le cose (vedi anche la politica, che a proposito di slealtà nei confronti dell' avversario è una palestra insuperabile).
Il buon Gilardino è sicuramente convinto della venialità del suo peccato - ammesso che lo consideri tale - e il calcio nel suo insieme pratica il vittimismo e l'autoassoluzione come il solo schema tattico che mette tutti d' accordo. Luciano Moggi, appena quattro anni dopo uno scandalo che pareva far sprofondare agli inferi il calcio tutto intero, gode già di una discreta fama di capro espiatorio e di perseguitato: molti ritengono che fosse solo un furbo in eccesso. Figuratevi che scandalo può essere un gol di mano.

giovedì 23 ottobre 2008

Ascolto - 2: fame di considerazione

Dall'incontro di martedì, una riflessione sull'ascolto


Plutarco, L'arte di ascoltare

Penso comunque che non ti dispiacerà ascoltare qualche preliminare osservazione sul senso dell'udito, che è esposto più di ogni altro alle passioni, dato che non c'è niente che si veda, si gusti o si tocchi, che produca sconvolgimenti, turbamenti o sbigottimenti paragonabili a quelli che afferrano l'anima quando l'udito è investito da certi frastuoni, strepiti o rimbombi. Ma a ben guardare esso ha più legami con la ragione che con la passione, perché se è vero che molte sono le zone e le parti del corpo che offrono al vizio una via d'accesso per cui arriva ad attaccarsi all'anima, per la virtù l'unica presa è data invece dalle orecchie dei giovani, sempreché siano pure e tenute fin dall'inizio al riparo dai guasti dell'adulazione e dal contagio di discorsi cattivi.

È evidente che un giovane che fosse tenuto lontano da qualunque occasione di ascolto e non assaporasse nessuna parola, non solo rimarrebbe completamente sterile e non potrebbe germogliare verso la virtù, ma rischierebbe anche di essere traviato verso il vizio, facendo proliferare molte piante selvatiche dalla sua anima, quasi fosse un terreno non smosso ed incolto.

Dal momento dunque che l'ascolto comporta per i giovani un grande profitto ma un non minore pericolo, credo sia bene riflettere continuamente, con se stessi e con altri, su questo tema. I più invece, a quanto ci è dato vedere, sbagliano, perché si esercitano nell'arte di dire prima di essersi impratichiti in quella di ascoltare, e pensano che per pronunciare un discorso ci sia bisogno di studio e di esercizio, ma che dall'ascolto, invece, possa trarre profitto anche chi vi s'accosta in modo improvvisato. Se è vero che chi gioca a palla impara contemporaneamente a lanciarla e riceverla, nell'uso della parola, invece, il saperla accogliere bene precede il pronunciarla, allo stesso modo in cui concepimento e gravidanza vengono prima del parto.

Il silenzio, dunque, è ornamento sicuro per un giovane in ogni circostanza, ma lo è in modo particolare quando, ascoltando un altro, evita di agitarsi o di abbaiare ad ogni sua affermazione, e anche se il discorso non gli è troppo gradito, pazienta ed attende che chi sta disertando sia arrivato alla conclusione; chi si mette subito a controbattere finisce per non ascoltare e non essere ascoltato, e interrompendo il discorso di un altro rimedia una brutta figura. Se invece ha preso l'abitudine di ascoltare in modo controllato e rispettoso, riesce a recepire e a far suo un discorso utile e sa discernere meglio e smascherare l'inutilità o falsità di un altro, e per di più dà di sé l'immagine di una persona che ama la verità e non le dispute, ed è aliena dall'essere avventata o polemica.
Ascolto è anche critica dell'altro, senza che questa sia mossa dall'invidia o semplicemente sterile. Non è difficile muovere obiezioni al discorso pronunciato da altri, anzi è quanto mai facile; ben più faticoso, invece, è contrapporne uno migliore. Per costruirne uno migliore occorre però essere in grado di ascoltare e porsi in “relazione” con l'altro.
Le persone sveglie e attente sanno trarre beneficio da chi parla non solo quando ha successo ma anche quando fallisce, perché, la pochezza concettuale, la vacuità espressiva, il portamento volgare, la smania, non disgiunta da goffo compiacimento, di consenso e gli altri consimili difetti ci appaiono con più evidenza negli altri quando ascoltiamo che in noi stessi quando parliamo. Dobbiamo perciò trasferire il giudizio da chi parla a noi stessi, valutando se anche noi non cadiamo inconsciamente in qualche errore del genere. Non c'è cosa al mondo più facile di criticare il prossimo, ma è atteggiamento inutile e vano se non ci porta a correggere o prevenire analoghi errori. Di fronte a chi sbaglia non dobbiamo esitare a ripetere in continuazione a noi stessi il detto di Platone: «Sono forse anch'io così?». Come negli occhi di chi ci sta vicino vediamo riflettersi i nostri, così dobbiamo ravvisare i nostri discorsi in quelli degli altri, per evitare di disprezzarli con eccessiva durezza e per essere noi stessi più sorvegliati quando arriva il nostro turno di parlare.

Quando si tratta di una discussione dobbiamo lasciar perdere la reputazione di chi parla e valutare esclusivamente il valore intrinseco delle sue argomentazioni, senza curarci degli applausi che riscuote, ma cercando di capire il senso del suo discorso e, confrontandolo con la realtà, avvederci se esso sia accettabile, e quindi apprezzabile o meno.
Bisogna eliminare dallo stile ogni eccesso e vacuità, mirando esclusivamente al frutto e prendendo a modello le api e non le tessitrici di ghirlande, perché queste, preoccupandosi solo delle fronde fiorite e profumate, intrecciano e intessono una composizione soave ma effimera e infruttuosa, mentre le api mirano sì al colore dei fiori, ma ne colgono l'essenza per la loro opera.
Questo non significa che non sia importante lo stile, che anzi è spesso il segno di una profonda riflessione da parte dell'oratore, ma esso deve solamente facilitare la comprensione di ciò che viene pronunciato, senza essere la prima cosa a cui fare attenzione: è uno strumento, non un contenuto. Al contrario si produrrebbe un deserto di intelletto e di buoni pensieri, molta pedanteria formale e verbosità, che non si avvicina alla vita, ma che condurrebbe il soggetto ad un deserto.

L'ascolto è centrale anche nel porre una domanda ad un oratore, per non essere tacciato di livore occorre capire le argomentazioni di chi parla, ascoltando tutto il suo discorso, senza esaurire la propria attenzione ad una semplice frase. La cautela e il senso della misura non stanno nello strozzarsi in gola un appunto che si potrebbe rivolgere, ma nell'ascoltare e nel capire le ragioni dapprima, per poi saper ribattere. In questo caso, la frase che si rivolge non è figlia solo delle riflessioni personali, ma, a seconda di chi ci si trovi di fronte, può prendere in considerazione anche quello che abbiamo appena ascoltato, non solo in modo polemico, ma per rivedere le proprie idee e crescere.

Ecco che abbiamo visto come non è solo chi parla ad avere dei doveri, sia verso l'uditorio che verso se stesso (mica potrà cancellare il proprio pensiero su cui magari ha riflettuto per anni, per soddisfare i desideri contrari degli ascoltatori), ma anche chi ascolta ha il dovere di farlo in modo opportuno. Senza però lanciarsi in una valutazione dei differenti diritti e doveri, possiamo notare che ogni dialogo si fonda sul rispetto dell'altro, sul riconoscimento dell'uguaglianza tra ascoltatore ed oratore, tra chi parla e chi ascolta.

Per concludere, ecco alcune norme di comportamento, per così dire generali e comuni, da seguire sempre in ogni ascolto, anche in presenza di un'esposizione completamente fallita: stare seduti a busto eretto, senza pose rilassate o scomposte; lo sguardo dev'essere fisso su chi sta parlando, con un atteggiamento di viva attenzione; l'espressione del volto dev'essere neutra e non lasciar trasparire non solo arroganza o insofferenza ma persino altri pensieri e occupazioni. In ogni opera d'arte, si sa la bellezza deriva, per così dire, da molteplici fattori che per una consonanza misurata e armonica pervengono a una proporzionata unita, mentre basta una semplice mancanza o un'aggiunta fuori posto per dare subito vita alla bruttezza: analogamente, quando si ascolta, non solo sono sconvenienti l'arroganza di una fronte corrugata, la noia dipinta sul viso, lo sguardo che vaga qua e là, la posizione scomposta del corpo e le gambe accavallate, ma sono da censurare, e richiedono molta circospezione, persino un cenno o un bisbiglio con un altro, un sorriso, gli sbadigli sonnacchiosi, lo sguardo fisso a terra e qualunque altro atteggiamento del genere.

giovedì 16 ottobre 2008

L'ascolto

Se vogliamo comunicare, è indispensabile riuscire ad ascoltarci, lasciar parlare gli altri e cercare di capire cosa intendono dirci, con l'umiltà di non ritenere solo le nostre idee le ragioni migliori, le uniche che abbiano diritto di essere pronunciate. Silentium est aurum è un ottimo motto, che ci ricorda come per dire qualcosa che abbia un qualche valore, occorre prima fare silenzio, non per cercare le cose dentro di sé (a meno che uno non speri che le idee gli nascano come Minerva dalla testa di Giove), ma per riflettere, capendo ciò che si sta per dire.
Ascolto non è solo udire, è qualcosa di più, dato dall'insieme di recezioni sensibili.

Per noi questo significa anche l'ascolto della Rivelazione. E' questo uno dei problemi più difficili, forse il primo di chi vuole credere (e forse anche la prima obiezione razionale di chi invece non crede). Trascina in gioco quelli che sono i nostri dubbi, le nostre incertezze (e per qualcuno anche l'insieme di debolezze umane che cerchiamo di superare nascondendo la realtà), perché ci pone di fronte ad un qualcosa che facciamo fatica a capire o che vorremmo capire come pare a noi, senza l'intralcio della Chiesa.
Eppure la rivelazione è veramente il momento principale, quello che dà valore alle nostre ricerche: è un'intuizione di un qualcosa che ascoltiamo e di una Persona che incontriamo che dà contenuto alla Rivelazione.
Sono due le caratteristiche che danno senso a questo ascolto e lo realizzano, da un lato che la Parola giunge alle nostre orecchie per mezzo della Grazia divina, dall'altro che a questa Grazia deve corrispondere una nostra buona disposizione: non si può incontrare qualcuno se non lo si vuole. Ed è più complesso se l'incontro non avviene con una persona in carne ed ossa, ma attraverso una parola.
Occorre quindi uno sforzo personale, che vada al di là della incapacità di comprendere, che vada al di là delle debolezze umane, che sia una quête che abbia la forza di non esaurirsi alla prima incertezza.
Tutto questo ha anche una conseguenza ben precisa, quella cioè che la conoscenza di Dio non avverrà solamente per una via razionale, ma sarà data dall'incontro con gli altri uomini, dall'incontro di Dio nell'uomo. Il significato dell'essere cristiani consiste nella vita insieme e interrogarsi attorno a questo non ha senso se fatto nel buio di camera propria, dove posso solo riflettere sull'incontro di comunione che ho avuto con Gesù e con gli altri.
L'incontro con Dio avviene nella nostra vita, avviene anche se non lo vogliamo (per grazia), ma ce ne possiamo accorgere se ne siamo disposti. Di solito si dice: se abbiamo un cuore aperto, non perché chi non lo incontra sia "cattivo", ma perché questi chiude uno spazio della sua vita, pone un rifiuto (i motivi sono vari e personali); crescere vuol dire accorgersi di questo luogo interiore che necessità di essere ascoltato e di ascoltare qualcosa per trovare un senso, e accorgersi che vi è qualcuno la cui voce è più significativa, il cui ascolto dipende dal mio volere. Non perché questo sia una cosa da bigotti bacucchi, al contrario, è la capacità di prendere in mano la propria vita e realizzare le proprie capacità/talenti.
La Rivelazione che ascoltiamo e che siamo chiamati a vivere ci mostra la via della Salvezza, la via della Vita (non la via del Dolore). Siamo con-vocati all'ascolto, affinché ascoltando crediamo, credendo speriamo, sperando possiamo amare. E tutto, se lo vogliamo!

mercoledì 8 ottobre 2008

Jack Frusciante è uscito dal gruppo (e poi è rientrato)

Non so se ritenere Jack Frusciante è uscito dal gruppo (recensione) uno dei grandi libri dell'adolescenza, di sicuro solletica le ambizioni di ogni ragazzo (e forse anche di ogni persona in generale), che sente l'oppressione di certi confini attorno a sé. Penso che sia la capacità di accorgersi di quei limiti, spesso imposti da un nucleo famigliare arido, o da una scuola che non riesce più ad istruire né ad educare, e cercare di uscire da essi senza uscire dalla propria vita a segnare il passaggio all'età adulta.
Perché è vero, ci sono degli schemi che finché siamo bambini tendiamo a vivere con naturalezza, e che poi vengono meno di fronte all'incedere della ragione, ma anche alla forza di certi istinti e sentimenti. Lo vediamo nella musica, grande ombra che aleggia nel libro, e così è in tutto ciò che ci riguarda, sia nell'accettazione e nella feroce critica delle cose che sono attorno a noi, sia nel modo di vivere che vogliamo sceglierci, nelle cose che vogliamo far entrare nella nostra vita e in quelle che invece non capiamo o che ci sembrano imposte per comodità (e spesso lo sono).
Uscire da certi limiti, però, significa saperli affrontare, cioè vivere dentro di essi. Rispettare una persona, in un amore che è a termine, come quello del libro, significa saper vivere un rapporto di coppia, senza voler premettere i propri bisogni alla vita stessa, ma cercando nel fondo dei propri sentimenti e nel rapporto con una Parola/persona più grande di noi, che ci possa permettere di crescere essendo noi stessi.
In fondo a tutto, il libro indica come sia necessaria un'educazione, anche per uscire "dal gruppo", un'educazione che permette di vivere in quel medesimo gruppo, vivere per essere se stessi, non l'ombra di qualcun altro.

Mi sono permesso questa premessa/introduzione, che forse può essere chiara solo a chi ha letto il libro di cui Martina ci segnala questo bel brano e che forse può aggiungere qualche commento a ciò che ho scritto, di cui si può parlare anche a voce...

"Io non sto con te perché ... perché va bene cosi, perché giugno è fantastico, e sapere che c'è l'America che arriva, e allora dirsi tutto perché tra una settimana è troppo tardi, è magnifico. Qualcosa mi manca, e lo sai. Io vorrei baciarti e tutto il resto, ma non tanto per il gesto in sé ... Davvero. E' difficile ... è come mettere le basi per addomesticarti un po' di più. Farai più fatica a dimenticati di me, così. Resteremo più attaccati ogni cosa in più che faremo. Io ho paura, per l'anno prossimo. Bacerò cento ragazze, andrò a letto con gente di cui non m'importa, ma non sarà come uscire con te e non dirsi niente tutto il pomeriggio. Io so già che l'anno prossimo farò le cose più facili, più banali. E con te è tutto così trasparente e da ragazzini ... Se penso che non ti ho mai baciata, Aidi...”

"Lo sai, bisogna sempre fare solo Quello Che Ci Si Sente."
"Certo, dicevo così. Dicevo Quello Che Mi Sento."

"E cosa ti senti ancora?"
"Sento che questo giugno, questo scoprirsi ogni giorno di più, e ogni pezzo di me che scopro trovarne uno nuovo di te, ogni pezzo di me che ti regalo trovarne in cambio uno che tu mi lasci nel calzino di lana di fianco al camino mentre dormo, è bello. A me non era mai successo. E veder crescere Aidi e Alex, ogni giorno, ogni mattina di sole, che per il resto della gente non vuol dire niente di particolare, è sovvertire tutti i pronostici, e ridere di fronte all'Uomo delle Previsioni Sicure, quello che era certo che la Danimarca avrebbe preso una vagonata di goal e sarebbe stata eliminata nelle qualificazioni e invece si è qualificata e agli Europei giocherà con squadre molto più forti, e l'uomo delle Previsioni Sicure non si raccapezza. La gente capisce le cose solo quando sono già successe, mai mentre accadono. E per noi due è lo stesso. La gente che non capisce come sia possibile visto che l'Uomo dei Sondaggi aveva negato categoricamente che due come noi potessero avere una pazza storia del genere."

"Fantastico. E la Danimarca come gioca?"
"Bene. Si vede che si divertono."
"Alex", aveva detto lei, stringendogli le mani con una strana intensità che l'aveva turbato. "Io voglio che la Danimarca vinca."

E. Brizzi, Jack Frusciante è uscito dal gruppo

giovedì 2 ottobre 2008

La generalità è il tipo di reato commesso

Da La Repubblica di ieri, in riferimento a quanto accaduto a Parma, dove un ragazzo di colore è stato picchiato dalla polizia. L'articolo del link è interessante, ma ne posto qui un altro, che riguarda un malcostume culturale che si sta diffondendo in Italia, della caccia al diverso per sentirsi più sicuri, come se da lì provenissero i veri problemi...

A Parma, nella civile Parma, la polizia municipale ha massacrato di botte un giovane ghanese, Emmanuel Bonsu Foster, e ha scritto sulla sua pratica la spiegazione: "negro". Davano la caccia agli spacciatori e hanno trovato Emmanuel, che non è uno spacciatore, è uno studente. Anzi è uno studente che gli spacciatori li combatte. Stava cominciando a lavorare come volontario in un centro di recupero dei tossici. Ma è bastato che avesse la pelle nera per scatenare il sadismo dei vigili, calci, pugni, sputi al "negro". SEGUE A PAGINA 33 Parma è la stessa città dove qualche settimana fa era stata maltrattata, rinchiusa e fotografata come un animale una prostituta africana. L' ultimo caso di inedito razzismo all' italiana pone due questioni, una limitata e urgente, l' altra più generale. La prima è che non si possono dare troppi poteri ai sindaci. Il decreto Maroni è stato in questo senso una vera sciagura. La classe politica nazionale italiana è mediocre, ma spesso il ceto politico locale è, se possibile, ancora peggio. Delegare ai sindaci una parte di poteri, ha significato in questi mesi assistere a un delirio di norme incivili, al grido di "tolleranza zero". In provincia come nelle metropoli, nella Treviso o nella Verona degli sceriffi leghisti, come nella Roma di Alemanno e nella Milano della Moratti. A Parma il sindaco Pietro Vignali, una vittima della cattiva televisione, ha firmato ordinanze contro chiunque, prostitute e clienti, accattoni e fumatori (all' aperto!), ragazzi colpevoli di festeggiare per strada. Si è insomma segnalato, nel suo piccolo, nel grande sport nazionale: la caccia al povero cristo. Sarà il caso di ricordare a questi sceriffi che nella classifica dei problemi delle città italiane la sicurezza legata all' immigrazione non figura neppure nei primi dieci posti. I problemi delle metropoli italiane, confrontate al resto d' Europa, sono l' inquinamento, gli abusi edilizi, le buche nelle strade, la pessima qualità dei servizi, il conseguente e drammatico crollo di presenze turistiche eccetera eccetera. Oltre naturalmente alla penetrazione dell' economia mafiosa, da Palermo ad Aosta, passando per l' Emilia. I sindaci incompetenti non sanno offrire risposte e quindi si concentrano sui "negri". Nella speranza, purtroppo fondata, di raccogliere con meno fatica più consensi. Di questo passo, creeranno loro stessi l' emergenza che fingono di voler risolvere. Provocazioni e violenze continue non possono che evocare una reazione altrettanto intollerante da parte delle comunità di migranti. Al funerale di Abdoul, il ragazzo ucciso a Cernusco sul Naviglio non c' erano italiani per testimoniare solidarietà. A parte un grande artista di teatro, Pippo Del Bono, che ha filmato la rabbia plumbea di amici e parenti. La guerra agli immigrati è una delle tante guerre tragiche e idiote che non avremmo voluto. Ma una volta dichiarata, bisogna aspettarsi una reazione del "nemico". L' altra questione è più generale, è il clima culturale in cui sta scivolando il Paese, senza quasi accorgersene. Nel momento stesso in cui si riscrive la storia delle leggi razziali, nell' urgenza di rivalutare il fascismo, si testimonia quanto il razzismo sia una malapianta nostrana. L' Italia è l' unica nazione civile in cui nei titoli di giornali si usa ancora specificare la provenienza soltanto per i delinquenti stranieri: rapinatore slavo, spacciatore marocchino, violentatore rumeno. Poiché oltre il novanta per cento degli stupri, per fare un esempio, sono compiuti da italiani, diventa difficile credere a una forzatura dovuta all' emergenza. L' altra sera, da Vespa, tutti gli ospiti italiani cercavano di convincere il testimone del delitto di Perugia che "nessuno ce l' aveva con lui perché era negro". Negro? Si può ascoltare questo termine per tutta la sera da una tv pubblica occidentale? Non lo eravamo e stiamo diventando un paese razzista. Così almeno gli italiani vengono ormai percepiti all' estero. Forse non è vero. Forse la caccia allo straniero è soltanto un effetto collaterale dell' immensa paura che gli italiani povano da vent' anni davanti al fenomeno della globalizzazione. La paura e, perché no?, la vergogna si sentirsi inadeguati di fronte ai grandi cambiamenti, che si traduce nel più facile e abietto dei sentimenti, l' odio per il diverso. La nostalgia ridicola di un passato dove eravamo tutti italiani e potevamo quindi odiarci fra di noi. In questo clima culturale miserabile perfino un sindaco di provincia o un vigile di periferia si sentono depositari di un potere di vita o di morte su un "negro".

Curzio Maltese

giovedì 18 settembre 2008

Domani incontriamo Bachelet (capire la politica di oggi...)

Venerdì pomeriggio l'oratorio, cioè i campetti in cui ieri qualcuno ha vinto quel bel match a calcetto e in cui Micheluzzo cerca di imparare a giocare a basket (tra un po' avrete anche la sorpresa del calcio femminile); venerdì alle ore 18 verrà intitolato a Vittorio Bachelet.
Ne avevamo già parlato, quindi non dev'essere un nome completamente nuovo. Fu un politico che venne ucciso dalle Brigate Rosse nel 1980, perché vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, un incarico difficile da accettare in quegli anni in cui i primi terroristi erano stati catturati e portati di fronte ai tribunali italiani.
La morte di Bachelet non segna la fine, non è un segno del fallimento e non considerarla come un modo privilegiato per comprendere la sua vita sarebbe un grave errore di prospettiva, una imperdonabile reticenza. Dobbiamo misurarci con quella morte che è diventata occasione di redenzione dal male della violenza.
Lo ripeto: la morte che diviene occasione di redenzione dal male della violenza.

Perché?
Perché durante il funerale, il figlio Giovanni (che, state attenti, sarà domani tra noi!!!) nella Preghiera dei fedeli perdonò i colpevoli, dicendo: « Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri ». E qualche anno dopo, in una lettera dei brigatisti inviata al fratello di Vittorio, si legge: «Ricordiamo bene le parole di suo nipote Giovanni, durante i funerali del padre. Quelle parole ritornano a noi e ci riportano là a quella cerimonia, dove la vita ha trionfato sulla morte, e dove noi siamo stati, davvero, sconfitti nel modo più fermo e irrevocabile».
Bachelet fu un "martire laico", ucciso per quei valori di laicità, di pace, di vita, libertà e democrazia per cui aveva sempre lottato; ma quegli stessi valori ritornano a sconfiggere i brigatisti, quelle parole di perdono sono un punto di non-ritorno, scardinano il movimento terroristico delle Br e ci restituiscono un Italia finalmente riappacificata nel suo interno.

Perché è importante per noi oggi?
Perché ci mostra come è il vivere nella sua totalità il messaggio cristiano di amore e vita che farà vincere la vita sulla morte. Non nel senso che in quanto cattolico ci si possa considerare superiore, anzi, Bachelet in proposito scrisse che non è dall'essere immediatamente cristiani che deriva un vivere bene nel mondo, ma sicuramente ci è data una capacità di lettura del mondo. Quale che sia la scelta dei cattolici variamente impegnati nella politica e nell'attività culturale e sociale, sembrerebbe comunque utile tener presente ciò che, sulla scia di Maritain, ripetevano Don Costa e Vittorio: "distinguere per non separare". Come disse Vittorio dimettendosi da presidente dell'Azione Cattolica: "l'amore alla vita, la difesa del diritto alla vita, l'accoglienza della vita debbono ispirare la legislazione e il costume, i rapporti di convivenza familiare, civile, internazionale. Ma non si vince l'egoismo mostruoso che stronca la vita se non con un supplemento d'amore, se non contrapponendo la capacità di dare la vita per il sostegno e la difesa degli inermi, degli innocenti, di chi vive in una insostenibile situazione di ingiustizia. Non si vince questo nostro egoismo se non riscoprendo il valore di ogni uomo perché figlio del Padre che dà la vita".
Oggi ci riguarda perché noi siamo nati dalle rovine causate dal terrorismo italiano, perché capire la politica di oggi è possibile solo conoscendo gli attori e i fatti di ciò che accadde ieri. Gli anni sessanta e settanta sono considerati anni di piombo, scardinare quella presenza inquietante (di rapimenti e attentati, e chi vive a Bologna deve sapere cosa è successo alla stazione nel 1980) è stato un momento di liberazione del Paese.
La vita politica odierna si configura ancora sull'inquietante presenza dei gruppi terroristici, alcuni dei quali rinati sulle ceneri dei vecchi, pensate al caso Biagi (ancora una volta ucciso a Bologna), o pensate alle semplici esternazioni di molti politici che utilizzano la paura come strumento per guadagnare voti.

Sperando che, al di là delle parole, sia chiara la testimonianza, vi lascio con una parte di un discorso fatta da Giovanni Bachelet ad un anniversario di un atto terrostico:
Nel ricordare Pertini, papà, gli eroici sindacalisti e cittadini democratici caduti qui a piazza della Loggia, c’è un unico, gravissimo dubbio che mi assale. Se valga per tutti quanto disse con disprezzo una rivista di quegli anni: se “il nostro caro Pertini, nella demagogia dello Stato assurto a Giovanni XXIII della Repubblica”, quello che anche da Presidente si paga coi soldi suoi il biglietto dei viaggi privati, non sia servito solo “come falsa coscienza, come foglia di fico” di un Paese irrimediabilmente corrotto e pasticcione. Mi chiedo, in questi momenti di sconforto, se sia valsa la pena di vivere, e in alcuni casi di morire, per un Paese che guazza sempre nell’imbroglio e nel complotto, e, anziché il meglio delle radici cristiane e socialiste, laiche e liberali della Resistenza e della Costituente, continua a mettere insieme il peggio del clericalismo, del post-comunismo e della massoneria, il peggio di Arlecchino e Pulcinella. Il peggio del peggio, insomma, magari in nome del realismo, del bene comune, perfino del riformismo; magari in modo tale da far sembrare rimbambiti o ingenui (a seconda dell’età) quelli che lottano per un’Italia giusta e pulita, per un’Italia normale.
Ma scaccio il dubbio e rispondo di no. Non è stata una foglia di fico, è stata la fionda di Davide. Lottare, anche in pochi, quando sembra impossibile vincere, è in ogni tempo un utile, anzi insostituibile servizio alla libertà e alla giustizia, alla verità e alla pace. È stata efficace, anzi decisiva la lotta dei partigiani come Pertini o Franco Salvi contro il fascismo. E negli anni tremendi delle bombe, degli attentati terroristici, dello scandalo Lockheed, della loggia P2, dell’esplosione della mafia, sono stati cruciali il servizio di Pertini, Moro o mio padre ai vertici della Repubblica, la responsabile eppure implacabile opposizione di Berlinguer, il coraggio di magistrati e giornalisti come Walter Tobagi, del quale ricorre oggi il venticinquesimo anniversario, la vigilanza democratica di sindacati e cittadini, qui a Brescia e in tutta Italia. [...]
Questi sacrifici sono serviti anche al bene di tutti. Hanno mostrato che, nei momenti difficili, pochi giusti coraggiosi sono sufficienti a inceppare la macchina del consenso al male, a risvegliare le coscienze, a salvare un intero Paese; hanno mostrato che la politica non è solo intrallazzo, ma può essere anche, come disse una volta il papa Paolo VI, la piú alta forma di amore e di servizio del prossimo; hanno cosí restituito speranza e fiducia nella politica, quella vera, ad un’intera generazione che allora aveva vent’anni, la mia generazione; e in alcuni di essi, fra cui me, alimentano ancora, trent’anni dopo, il coraggio e la voglia anzitutto di lavorare onestamente, senza pestare i piedi degli altri ma anche senza piegare la schiena; alimentano l’amore per la Repubblica e la Costituzione, anche oggi vilipese e oggetto di un diverso, ma non meno pesante attacco; consentono di pronunciare ancora parole come libertà, giustizia, verità e pace, senza né vergognarci quando ci guardiamo allo specchio in bagno (come dice il professor Sylos Labini), né sentirci rimbambiti o ingenui.

mercoledì 10 settembre 2008

Festa comunità 2008


Venerdì 12 serata dell'Albero di Cirene; ore 19: Festa multietnica con cena e stand.
Sabato serata campi, cena e stand e festona...
Domenica S. Messa dei giovani e poi pranzo assieme: ci siamo???

giovedì 4 settembre 2008