lunedì 31 maggio 2010

Interessante articolo

Piccolo apologo sul Paese illegale di M. Serra:

PICCOLA storia di strada - ignobile e istruttiva - come ne succedono tante. Utile per capire, al di fuori delle grandi catalogazioni teoriche, e dell'annoso dibattito politico-istituzionale sull'argomento, quanta distanza separi gli italiani dalla legge, e la legge dagli italiani. Riccione, viale Ceccarini, sabato sera. Quattro ragazzi sui diciotto anni mangiano una pizza in un ristorante e cercano di filarsela senza pagare il conto. Tre ce la fanno, uno viene bloccato dal personale del locale. Che lo gonfia di botte.

Davanti al ristorante si forma un capannello di curiosi. Lo struscio serale consente un fuori programma: il pestaggio di un cliente moroso. Il ragazzo piange, trema, è pieno di sangue, circondato da quattro o cinque giovani signori (del tipo antropologico: palestrato col codino) che gli stanno dando quella che a loro deve sembrare una lezione di vita. Tra i tanti che osservano la scena nessuno interviene. Per fortuna del ragazzo, passa in quel momento davanti al ristorante un gruppo di adulti che, nonostante sia coperto di sangue, lo riconoscono: è il compagno di scuola di un figlio. Intervengono, chiedono che cosa succede, vengono rudemente invitati dal gestore a non impicciarsi, qualche spintone, qualche insulto cerca di dissuaderli. Per fortuna si impicciano, soccorrono il ragazzo, si informano sull'accaduto. Chiedono al gestore perché, invece di pestare a sangue il ragazzo, non abbia chiamato i carabinieri. "I carabinieri non gli fanno niente, noi almeno gli abbiamo dato quello che si meritava".

Gli adulti, nel tentativo di riportare la calma e impedire conseguenze più gravi per il ragazzo, pagano il conto (sessanta euro). Dettaglio quasi esilarante, niente ricevuta fiscale: in compenso il ragazzo riceve un ultimo ceffone da parte del più agitato dei suoi improvvisati secondini. I soccorritori, che descrivono un clima di violenza isterica, fuori controllo, riescono in qualche modo a portare fuori il ragazzo, non senza essersi fatti restituire il suo cellulare, sequestrato. Lo portano a una fontana, gli lavano il sangue, gli tamponano le ferite, lo convincono di telefonare al padre, gli suggeriscono di fare denuncia. Il padre verrà
a riprenderlo. Denuncia non verrà fatta.

Il ragazzo l'ho sentito il giorno dopo. Mogio, confuso, forse conscio di avere fatto una fesseria (non pagare il conto non è una divertente bravata da movida, è un reato), sicuramente non conscio di essere stato vittima di un reato molto più grave, sequestrato, pestato, "punito" al di fuori di qualunque legge, compresa quella del buon senso. Ma chi ignora i propri doveri ignora anche i propri diritti. Di qui in poi, quel ragazzo penserà che il più grosso, o quello che corre più veloce, o il meglio accompagnato (in gruppo si mena meglio) ha sempre ragione.

La morale non è neanche una morale: è il desolato computo di una somma di comportamenti totalmente fuori dalle righe e fuori dalla legge. Nel clima eccitato della movida, non pagare il conto deve sembrare una bravata spiritosa: invece è un reato. I reati andrebbero denunciati (oppure, se si ha cervello, sanati con una mediazione privata: ragazzino, dì a tuo padre di venire subito qui a pagare il conto oppure ti denunciamo). Spaccare la faccia a un ragazzino isolato e indifeso è una porcheria in termini umani, e un reato ben più pesante che cercare di andarsene senza pagare quattro pizze. Ciliegina sulla torta, il conto incassato senza ombra di ricevuta: costume nazionale, è noto, ma che al termine di un episodio del genere suona come piccolo sfregio conclusivo. La stecca finale di un concertino disastroso.

Neanche l'ombra della legge, in tutto questo: e non in Aspromonte, ma in viale Ceccarini. Nella mezz'ora di parapiglia non si è visto un poliziotto o un vigile che cercasse di riportare l'ordine e la ragione: ma questo può essere solo uno sfortunato caso, essendo impensabile che nel cuore della più vivace e popolosa delle "movide" romagnole, con tutto l'alcol (e il resto) che gira, non sia previsto qualche presidio delle forze dell'ordine. Ma il peggio è che a nessuno dei protagonisti è balenato il sospetto che per stabilire le ragioni e i torti, per punire, per risarcire i danni, ogni via fuori dalla legge è fuorilegge. Debole o forte che sia, opaca o chiarificatrice, la legge esiste apposta per evitare che un cliente moroso possa farla franca, e che un ristoratore manesco rischi di provocargli lesioni permanenti, o peggio, per sessanta euro. E per giunta non tassati.

lunedì 24 maggio 2010

Libertà di informazione o dall'informazione???

Articolo sulla libertà d'informazione.

Ddl intercettazioni, Pace: In gioco una libertà costituzionale
di Alessandro Pace, da Repubblica, 23 maggio 2010

Merita di essere evidenziato che ciò che viene pregiudicato dal disegno di legge sulle intercettazioni, attualmente in discussione, non è tanto il diritto del cittadino ad essere informato – che, come tale, raramente può essere fatto valere davanti ad un giudice – ma è soprattutto la così detta «libertà istituzionale dell´informazione».

La quale, come «valore» di fondo dell´ordinamento costituzionale, è stata ripetutamente affermata dal Tribunale costituzionale federale tedesco ed è rintracciabile anche nella giurisprudenza della Corte suprema degli Stati Uniti, del Conseil constitutionnel francese, del Tribunal constitucional spagnolo e della nostra Corte costituzionale. Quest´ultima, alludendo al generico «diritto all´informazione», si riferisce infatti sia al pluralismo delle imprese informative (e quindi al pluralismo delle fonti di informazione), sia all´interesse generale dei cittadini ad essere informati.

In altre parole, la libertà «della» informazione si realizza anche nel nostro ordinamento mediante un «processo (circolare) di comunicazione»: dall´esercizio della libertà d´informare nasce, di fatto, la «libertà d´informarsi». Questa libertà si nutre dell´esercizio di quella. Il potere (politico, giudiziario o economico) colpendo l´una, colpisce anche l´altra. Una restrizione della pluralità delle fonti notiziali (quale che ne sia la causa: una legge eversiva - come nella specie -, un accordo tra imprenditori o il tentativo di un soggetto di monopolizzare il «mercato delle idee») concretizza, nel contempo, anche una violazione della libertà d´informarsi.

La libertà d´informarsi, pur non costituendo un diritto tutelato in via diretta dall´articolo 21 della Costituzione, è tuttavia ormai presente, a livello costituzionale, anche nel nostro ordinamento, grazie: a) all´articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell´uomo, secondo la quale «Ogni persona ha diritto alla libertà d´espressione: tale diritto include la libertà d´opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee…»; b) al fatto che il primo comma dell´articolo 117 della Costituzione impone al legislatore di rispettare gli obblighi internazionale; c) alla più recente giurisprudenza della Corte costituzionale che ha reso effettivo tale vincolo (sentenze numero 348 e 349 del 2008).

La «fondamentalità» della libertà di informarsi deriva poi anche dal fatto, comunemente avvertito dagli studiosi, di essere una delle «precondizioni» della stessa democrazia. Un percorso ulteriore in questa stessa direzione è infatti tracciato, in Costituzione, da quelle norme che affermano che la sovranità appartiene al popolo, che impegnano la Repubblica a rimuovere gli ostacoli per una effettiva libertà di tutti, che impegnano la Repubblica a sviluppare la cultura e la ricerca scientifica, che tutelano l´arte e la scienza, che impongono la pubblicità dei lavori parlamentari e dei procedimenti amministrativi (articoli 1, 3, 9, 33, 64, 97 ecc. della Costituzione).

Norme, tutte queste, che nel prefigurare la posizione giuridica del «cittadino» nello Stato democratico, ne delineano la sua posizione di fronte ai pubblici poteri. Da esse discende infatti che, per poter esercitare consapevolmente i diritti politici (ma non solo!) i cittadini dovrebbero essere liberi di informarsi. Il flusso delle informazioni non dovrebbe mai essere colpevolmente interrotto o comunque difficultato senza valide ragioni (si pensi al divieto - che si vorrebbe ora imporre - di pubblicare notizie fino al termine dell´udienza preliminare; al perdurante segreto di Stato ultratrentennale che impedisce di conoscere la verità su talune stragi ecc.). Il flusso delle informazioni dovrebbe anzi essere agevolato dai pubblici poteri che dovrebbero porre i cittadini in grado di essere sempre compiutamente informati. L´opposto, perciò, di quel che si pretende con il criticatissimo disegno di legge sulle intercettazioni.

sabato 22 maggio 2010

E se l'obbedienza non fosse una virtù?

Martedì abbiamo svolto un incontro sul famoso scritto di don Milani; avevate da leggere a casa la lettera che questi spedì ai cappellani militari (rileggetela al link). Costoro accusarono gli obiettori di coscienza, cioè quanti si rifiutavano di svolgere il servizio militare perché ritenevano che fosse in contraddizione con i propri valori, di viltà e di estraneità al valore dell'amore cristiano. La risposta di don Milani è vibrante: ripercorre la Costituzione e la storia, indicando come le guerre svolte non siano mai state un fiore all'occhiello per la Nazione, a meno che non siano guerre di liberazione da un invasore. La divisione che i cappellani militari fanno tra patrioti e stranieri, viene ripresa da don Milani, che reclama, sempre guidato dalla Costituzione, "il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto".
Dall'altro lato rivendica la necessità della critica intellettuale, e quindi la necessità di esercitare il proprio ingegno nella conoscenza delle cose: si è liberi se non si è subalterni, cioè se si ha una coscienza da esercitare che renda responsabili. La vera lotta di don Milani consiste nel ritenere tutti adatti a ricevere un'educazione che li renda liberi e responsabili, che ne faccia dei cittadini senza che possano essere ingannati dai padroni o dalla televisione. Che siano opinione critica e non solo un pubblico plaudente.

Don Milani viene citato in giudizio per apologia di reato e, portato davanti al tribunale, risponde con una bellissima lettera ai giudici che abbiamo letto quasi interamente martedì sera. (Tenetela presente, coltivatene i contenuti, perché vi torneranno davvero utili!)

Credo che vari siano i temi esplicitati: quelli politici della coscienza individuale e del valore della legge e della sua operatività (art. 3 della Costituzione), quello della responsabilità del cittadino di fronte alla violenza dello Stato (e, mi dispiace, anche di fronte alla violenza del fratello: ne siamo responsabili, così come siamo responsabili della povertà del povero). Dell'obbedienza agli ordini illegittimi, che abbiamo incontrato nel campo a Monte Sole: "A dar retta ai teorici dell'obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell'assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore". Quest'ultimo punto è decisivo.

Don Milani ci insegna il primato della coscienza: siamo liberi davvero solo nel momento in cui la nostra scelta è una scelta cosciente e quando è guidata dalla nostra educazione e non dagli istinti o dall'ordine di qualcun altro (o qualcos'altro). Il valore della liberà è immesso nella relazione comunitaria con l'altro, per cui vale solo se è rispetto delle regole di convivenza, nella convinzione che quelle leggi si possano migliorare civilmente: tramite voto e sciopero, appunto.

Così la libertà, che ci pare limitata dalla legge (la nostra libertà termina dove inizia la libertà dell'altro) è, in realtà una libertà totale laddove l'altro non è un nemico che mi svuota dei miei diritti, ma l'unico tramite per la realizzazione completa della legge, che posso incontrare nel dialogo. La libertà diventa tale solo d'innanzi alla legge che la coscienza si dà. La legge non è più un'imposizione di ordini altrui, ma il proprio volere che si è fatto ragione e che si fa comunità. L'esempio degli obiettori di coscienza non è di chi rifiuta la legge in quanto tale, ma di chi ama la legge e per migliorarla è disposto a pagarne le conseguenze. L'obbedienza cieca non è una virtù; è un virtù l'amore della legge, cioè la comprensione che la Legge (da quella umana, fino alla legge divina) è l'espressione di un amore e che tale vincolo sia primario rispetto alla legge presa singolarmente. Vi è la convinzione che l'amore per la Legge sia profondo, sia un amore per la legge del cuore. E di un cuore puro, liberato dalle tenebre.
L'obbedienza cieca annulla l'uomo, lo rende un automa, gli toglie il cuore infarcendolo dei suoi più biechi desideri e ne annega la coscienza e l'intelletto.
Al contrario di quanti, soprattutto oggi, violano la legge per vantaggi personali, eventualmente anche cambiandola per dar libero sfogo ai propri interessi a scapito degli altri; l'esempio degli obiettori di coscienza è di chi ama la legge e riconosce che la vita senza legge sia una vita immiserita, una vita da schiavi: le democrazie vivono se ciascuno si fa carico degli interessi generali (quanto è rousseauiano).

Se questo ci deve far riflettere, desidero che un altro punto sia di stimolo: l'attenzione di don Milani per quei 31 ragazzi incarcerati per obiezione di coscienza, "Così diversi dai milioni di giovani che affollano gli stadi, i bar, le piste da ballo, che vivono per comprarsi la macchina, che seguono le mode, che leggono giornali sportivi, che si disinteressano di politica e di religione. Un mio figliolo ha per professore di religione all'Istituto Tecnico il capo di quei militari cappellani che han scritto il comunicato. Mi dice di lui che in classe parla spesso di sport. Che racconta di essere appassionato di caccia e di judo. Che ha l'automobile. Non toccava a lui chiamare «vili e estranei al comandamento cristiano dell'amore» quei 31 giovani. I miei figlioli voglio che somiglino più a loro che a lui. E ciò nonostante non voglio che vengano su anarchici.

Ritengo che l'insegnamento più grande sia che l'avere delle regole ci tiene al riparo (badate, non lontani, ma al riparo) da egoismi, individualità, dal consumismo e dalle mode e ci faccia più vicini agli altri, agli ultimi e alla verità. E non è un caso se la via maestra di questo percorso è offerta dalla scuola, dall'educazione e dalla cultura.

martedì 11 maggio 2010

Una lettera di una figura importantissima

«Voglio confessare qui molto semplicemente una cosa: credo che soltanto la Bibbia sia la risposta a tutte le nostre domande e che abbiamo solo bisogno di domandare con insistenza e con un po' di umiltà per ricevere da essa la risposta. Non possiamo infatti leggere semplicemente la Bibbia così come leggiamo altri libri. Dobbiamo essere pronti a porle realmente delle domande. Solo così essa si dischiude a noi. Solo se ci attendiamo dalla Bibbia risposte ultime, essa ce le fornisce.
Ciò dipende appunto dal fatto che nella Bibbia ci parla Dio. E su Dio non possiamo appunto riflettere semplicemente per conto nostro, bensì dobbiamo porgli domande. Solo se lo cerchiamo, egli ci risponde.
Naturalmente possiamo anche leggere la Bibbia come qualsiasi altro libro, vale a dire dal punto di vista della critica testuale, ecc. Non c'è nulla da eccepire al riguardo. Solo il fatto che questo non è l'uso che dischiude l'essenza della Bibbia, bensì unicamente la sua superficie.
Come non è innanzitutto analizzandola che accogliamo la parola di una persona che ci è cara, bensì acconsentendovi in maniera pura e semplice, e come tale parola risuona poi in noi per giorni semplicemente come la parola di quest'uomo che amiamo. E come in questa parola si dischiude poi sempre più colui che l'ha pronunciata quanto più noi la “meditiamo nel nostro cuore” a somiglianza di Maria (Lc 2,19), così dobbiamo comportarci con la parola della Bibbia.
Soltanto se osiamo ascoltare la Bibbia come se in essa ci parlasse realmente Dio. Che ci ama e non vuole lasciarci soli con le nostre domande, ne gioiremo.»

(D. Bonhoeffer, Lettera a Rüdiger Schleicher, 8 aprile 1936)

sabato 8 maggio 2010

Una lezione alla scuola di Barbiana. (una sola?)

Gita giovanissimi 1/2 maggio 2010

Salire sul monte di Barbiana, sabato mattina, per incontrare i luoghi di don Lorenzo Milani, con un gruppo di 40 giovanissimi, mi ha ricordato l'ascesa a Monte Sole di quest'estate. E se i luoghi di Monte Sole, con la loro tragedia, ci urlano il dolore provocato dall'uomo che si sostituisce a Dio e che uccide il povero e il contadino: che uccide chi è ultimo perché ritenuto inferiore, secondo un ordine e una giustizia propri e totalmente umani; Barbiana, al contrario, ci sussurra la possibilità alternativa di un mondo in cui non trionfino le società dei consumi, le società dell'individualismo sfrenato, dell'invidia e della guerra. È la possibilità di una comunità in cui, attraverso un'educazione e una formazione guidate dall'amore per il prossimo, si aiuta l'ultimo a sentirsi fratello: gli ultimi e i poveri non più considerati quali oggetti da sfruttare, ma liberi di liberarsi dalla propria condizione di subalternità.
Barbiana diviene il Monte in cui l'espressione della giustizia divina, vaticinata dal profeta Amos, teorizzata da S. Paolo, ma raffigurata dal Gesù dei vangeli, e delle Beatitudini in particolare, trova forma. In primis nello stare con gli ultimi e nell'essere al servizio dei poveri, perché presso di loro è possibile incontrare Gesù che si è fatto ultimo per noi; nel fare comunità e nel darsi per gli altri; infine, nella convinzione che l'eguaglianza non si realizza facendo “parti uguali tra diseguali”.

A noi giovanissimi poteva interessare il discorso sulla Scuola: l'accusa di don Milani alle ingiustizie di una scuola che fomentava la competizione, invece che favorire l'istruzione e l'aiuto reciproco, e di cui individuava i limiti, tuttora attuali, nella difficoltà educativa. Di certo non per lamentarci del brutto voto o del professore cattivo, ma per prendere don Milani da esempio e portarlo nella nostra società e nella nostra scuola per renderle migliori. Un discorso non solo scolastico, ma politico, totale. Per essere lontani dalla politica che rifiuta la cultura o che propone il facile successo di matrice televisiva come obiettivo in cui l'uomo è specchio di se stesso; nella volontà di crescere, di migliorare assieme agli altri, di uscire assieme dai problemi. Perché la scuola di Barbiana non è solo scuola, non riguarda solo chi educa, ma è un monito a tutta la società e ad ogni parte (carisma) delle nostre comunità.
Ed è un cammino che dobbiamo compiere, una salita che ci libera il cuore dalle pesantezze del mondo: facendoci incontrare il povero, l'ultimo, lo riconosciamo come fratello, ci riconosciamo in lui e ci riconosciamo come fratelli, quindi come figli. Stare con l'ultimo, nel tentativo di liberarlo, se non dall'indigenza economica, almeno da quella del cuore: dalla solitudine e dall'abbandono, libera anche noi. Non come merito nostro: in quel fare comunità si incontra Gesù, il liberatore vero.
È un cammino in salita, non facile, perché la libertà a cui conduce non è quella della società di massa: un perdersi nel nulla; è un trovarsi nell'altro, nell'escluso, nel diverso e nell'Altro, il maledetto che pende dal legno. È una libertà di chi ha scelto la vita in Gesù.
È il cammino dell'edu-care, dalla croce uncinata alla croce di Cristo, da Monte Sole a Barbiana, dalla giustizia ingiusta dell'uomo a quella misericordiosa dell'amore di Dio, al Golgota, passando per la Montagna di Matteo 5-7 in cui centrale è il Padre Nostro. Al monte che Egli ci ha indicato (Mt 28, 16).