domenica 26 dicembre 2010

Natale 4 (Auguri scomodi...)

Non obbedirei mai al mio dovere di vescovo, se vi dicessi "Buon Natale" senza darvi disturbo. Io, invece, vi voglio infastidire.

Non posso, infatti, sopportare l'idea di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla "routine" di calendario.

Mi lusinga, addirittura, l'ipotesi che qualcuno li respinga al mittente come indesiderati. Tanti auguri scomodi, allora!

Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali. E vi conceda la forza di inventarvi un'esistenza carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio.

Il bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finchè non avrete dato ospitalità a uno sfrattato, a un povero marocchino, a un povero di passaggio.

Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la carriera diventa l'idolo della vostra vita; il sorpasso progetto dei vostri giorni: la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate.

Maria, che trova solo nello sterco degli animali la culla ove deporre con tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi occhi feriti a sospendere lo struggimento di tutte le nenie natalizie, finché la vostra coscienza ipocrita accetterà che lo sterco degli uomini o il bidone della spazzatura o l'inceneritore di una clinica diventino tomba senza croce di una vita soppressa.

Giuseppe, che nell'affronto di mille porte chiuse è il simbolo di tutte le delusioni paterne, disturbi tutte le sbornie dei vostri cenoni, rimproveri i tepori delle vostre tombolate, provochi cortocircuiti allo spreco delle vostre luminarie, fino a quando non vi lascerete mettere in crisi dalla sofferenza di tanti genitori che versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, senza salute, senza lavoro.

Gli angeli che annunciano la pace portino guerra alla vostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che, poco più lontano di una spanna con l'aggravante del vostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfrutta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la terra degli umili, si condannano i popoli allo sterminio della fame.

I poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell'oscurità e la città dorme nell'indifferenza, vi facciano capire che, se anche voi volete vedere "una gran luce", dovete partire dagli ultimi. Che le elemosine di chi gioca sulla pelle della gente sono tranquillanti inutili. Che le pellicce comprate con le tredicesime di stipendi multipli fanno bella figura ma non scaldano. Che i ritardi dell'edilizia popolare sono atti di sacrilegio, se provocati da speculazioni corporative.

I pastori che vegliano nella notte, "facendo la guardia al gregge" scrutando l'aurora, vi diano il senso della storia, l'ebbrezza delle attese, il gaudio dell'abbandono in Dio. E vi ispirino un desiderio profondo di vivere poveri: che poi è l'unico modo per morire ricchi. Sul nostro vecchio mondo che muore nasca la speranza!!!

don Tonino Bello

sabato 25 dicembre 2010

Natale3 (orgia di consumi???)

Intervista a Enzo Bianchi su L'Espresso:
Se il Natale è diventato un’orgia consumista priva di spiritualità, non dipende anche dalla sua origine? In fondo è la meno cristiana delle ricorrenze, connotata da una matrice pagana di gran lunga precedente la nascita di Gesù. E il bambinello non vi è forse celebrato come un’antica divinità antropomorfa?

So di non scandalizzare il priore del Monastero di Bose, Enzo Bianchi, avanzandogli obiezioni radicali come questa. Dialogare con gli ebrei e con i non credenti è per lui un’abitudine quotidiana. Così come godersi lo stupore del forestiero quando giunge qui sulla Serra morenica fra Ivrea e Biella, specie d’inverno, con i prati ricoperti dalla galaverna e sullo sfondo, bianchissimi, i ghiacciai alpini. Il visitatore non si aspetta la raffinatezza di un centro di studio e di preghiera nel quale la povertà si traduce in cura del bello, la sobrietà del cibo diviene prelibatezza, la liturgia e l’esegesi promanano libertà intellettuale.
Figuriamoci dunque se si arrabbia, padre Enzo Bianchi, davanti ai miei dubbi sul suo amatissimo Natale cristiano. Proprio lui che ha fondato più di quarant’anni fa una regola monastica senza chiedere nessun riconoscimento ufficiale alla Chiesa. Tanto più che ci lega un’affettuosa confidenza, resa più intensa da quando ci unisce il richiamo del Monferrato in cui Enzo è nato e dove io sono andato a vivere. Prima di rispondermi, quindi, si proceda con i cardi nella fonduta, il risotto ai funghi di Bose e gli involtini e la pesca sciroppata e il grignolino di Vignale, a celebrazione monferrina dei ricordi natalizi di cui è ricco il suo ultimo libro “Ogni cosa alla sua stagione” (Einaudi), dove Bianchi si racconta come mai aveva fatto prima. Dapprima ritrovo i luoghi e i vecchi del nostro circondario, come la selvatica formaggiaia Teresina del Muchèt che puzzava delle sue capre ma coltivava profumatissime erbe aromatiche. E a me ricorda la traversata nella neve del 25 dicembre per raggiungere la vecchia Angela che viveva tutta sola in una cascina di là del bosco dalla mia, per farle un po’ di compagnia e riceverne una bottiglia imbevibile ma preziosissima, perché frutto della mia stessa vigna lavorata da suo marito cinquant’anni prima. Poi i falò sulla collina di Enzo che noi facciamo ancor oggi per bruciare l’anno vecchio, riempiendo di paglia una tuta di operai senza lavoro ritornati a fare i contadini. Ma infine arriva la memoria più intima e tormentata, non credevo che Enzo ce l’avrebbe fatta a vincere la sua discrezione piemontese: l’incomprensione prolungata col padre e con la matrigna, dopo la morte della mamma che l’aveva lasciato orfano a soli otto anni. La fatica di far accettare nel suo paesino, dove la miseria guardava con sospetto la cultura, una vocazione precoce allo studio e una fede naturale. Le meravigliose figure di Cocco e Etta, la postina e la maestra, che intuiscono e coltivano sapientemente il talento dell’orfanello, ne assecondano la religiosità critica, si sacrificano per farlo proseguire fino all’università. Entrambe verranno a trascorrere qui a Bose i loro ultimi anni.
“Che male c’è se il Natale è festa accogliente per i pagani?”, mi sorride con gli occhi furbi da contadino il priore di Bose. “Non ce lo insegna pure l’Antico Testamento? Nel Tempio di Gerusalemme i sacerdoti avevano pensato il cortile dei goyim, cioè un luogo adibito a ricevervi i non ebrei. Ed era uno spazio più grande di quello riservato a Israele nel Tempio”.

Dunque tu immagini un Natale rivolto ai pagani?
“A tutte le genti, direi meglio. Mio padre, che non era cristiano e che avversò a lungo la mia scelta monacale, è ancora lì che mi ammonisce a non giudicare mai le persone suddividendole fra credenti e non credenti. Lottare contro gli idoli che disumanizzano e alienano la relazione con gli altri è un’esperienza che ci accomuna ben oltre affiliazioni schematiche”.

Ma chi dovremmo festeggiare la notte del 24 dicembre? Un poco verosimile Dio bambino?
“Gesù è nato uomo, completamente uomo. Egli giungerà a raccontarci Dio ma attraverso il suo percorso di vita umana. La sua testimonianza è straordinaria grazie, per l’appunto, alla sua straordinaria umanità. Dunque chi deifica Gesù sulla terra commette un errore, lo deifica troppo presto”.

Ciò che dici conforta il mio punto di vista ebraico, così come mi è piaciuta nel libro la tua definizione dell’”uomo Gesù che ha raccontato Dio”. Ciò consente di recepire senza pregiudizi il suo messaggio, come messaggio di un profeta ebreo…
“Gesù era uomo, totalmente uomo, e questo in effetti si può dire anche degli altri profeti, da Isaia a Ezechiele. Perché no?”.

Ma allora che senso ha adorare Gesù come incarnazione divina? Io non provo questa necessità di un Dio che si faccia uomo come precondizione a instaurare una relazione intensa con Lui.
“Perché abbisogna pensare un Dio che si faccia uomo, attraverso Gesù? Forse ti stupirò, ma accetto questa tua obiezione. Non abbisogna necessariamente. Tanto è vero che la fede ebraica si è mantenuta, il cristianesimo non l’ha annullata. Noi cristiani proviamo la necessità di alzare il velo sulla relazione misteriosa che congiunge l’uomo a Dio, e raccontarci Dio attraverso l’esperienza medesima della carne umana. Ma non è vero che senza Cristo, cade Dio”.

Riconosci quindi il Natale come festa intrisa di reminiscenze pagane?
“Lo riconosco senza esserne turbato, perché il Natale è la nostra festa che meglio dimostra l’inculturazione della cultura cristiana. Ciò sarebbe impensabile nella Pasqua, che celebra il mistero della morte e resurrezione tanto più difficile da accettare, eppure decisivo. Mentre la nascita di un bambino, ne converrai, è sempre motivo di festa per tutti. Il Natale ha una portata antropologica molto forte, non a caso, soprattutto in Occidente”.

Anche perché vi ricomprende le tradizioni pre-cristiane, vero?
“Certo, pensalo nel nostro Monferrato cosa significa, appena superato il solstizio d’inverno, celebrare la vittoria del sole sulla notte, la luce, le giornate che ricominciano a allungarsi. Ovvio che le luminarie di Natale precedono il cristianesimo, perché precedente è il bisogno di vincere il buio. Anche l’impiego del vischio, quando la terra è congelata, era già un’abitudine celtica da noi ereditata. Nel momento più duro dell’anno naturale la famiglia si raccoglie e per contrasto festeggia, si consola scambiandosi doni. In questo senso il Natale è più antropologico, mentre a Pasqua la storia prevale sulla natura”.

Anche tu, però, nel libro, critichi “l’ideologia del Natale”. La tua indulgenza per i pagani non arriva a giustificare l’orgia consumistica contemporanea.
“Un conto è il presepe, la capanna della natività che esercita un richiamo meraviglioso perfino su uomini sapienti che non avevano la fede nel Dio d’Israele: i magi. Penso a loro, capaci di una ricerca, di una lotta anti-idolatrica, di inseguire una speranza che abita tutta la storia umana…

Mi stai dicendo che si può essere pagani e anti-idolatri nello stesso tempo?
“Ma certo, di nuovo è mio padre che me l’ha insegnato. C’è il giusto e l’ingiusto, mica il battezzato e il non battezzato. L’idolatria del Natale contemporaneo è bel altra cosa dalle sue origini pagane. Fa prevalere l’arroganza di chi ha rispetto a chi non ha, il misurarsi sulla quantità dei doni. Fino a rendere questo Natale invivibile alle persone sole, agli emarginati, ai più poveri. E’ assurdo, ma in questi giorni di una festa mal vissuta aumentano perfino i suicidi”.

Se ben capisco, devi ai pochi anni trascorsi con tua madre la fede cristiana che ha fatto di te uno studioso della Bibbia e il fondatore di una comunità monastica.
“E’ così, ma se n’è andata troppo presto e quindi il suo impulso spirituale non sarebbe bastato senza l’apporto di Cocco e Etta, le due donne al tempo stesso pie e curiose, aperte, che si presero cura di me dopo la morte della mamma. Un commiato che aleggia in ciascuna delle mie notti, perché la camera da letto era unica nella nostra casa dignitosa ma povera; e io ricordo le sue crisi asmatiche, ogni volta col dubbio di risvegliarmi al mattino senza che lei ci fosse più. Sono passati più di sessant’anni ma tuttora non amo andare a letto, fatico a addormentarmi”.

Ricordi il Natale con tua madre?
“Lo ricordo con gioia e lo perpetuo nella sua ferma volontà che la cena natalizia preveda diciassette portate, non una di meno! Bisognava che si facesse festa dello stare insieme. E siccome in famiglia eravamo solo tre mentre –come diceva la mamma- la tavola ha quattro lati, c’era sempre il posto per chi era rimasto vedovo da poco, o per il girovago delle nostre campagne. Proprio come fate voi ebrei nella cena pasquale, quando apparecchiate un coperto in più per il profeta Elia”.

Natale2 (rinascita o consumi?)

Il Cardinal Martini su Il Corriere:

Oggi il Natale ha quasi perduto il suo senso originario. Lo «celebrano» anche uomini di altre religioni. Perfino parecchi non credenti vivono in questo giorno una qualche forma di liturgia profana. Non v' è alcuno che rifiuti per Natale qualche dono o almeno una buona cena. Per questo non parlo volentieri del Natale. Da quando ho conosciuto un po' meglio la Sacra Scrittura, è la Pasqua che mi attrae e mi pone dinnanzi a un preciso programma di vita. Benché il Natale sia una splendida manifestazione della gloria di Dio in Cristo e del suo amore per noi, i discorsi che si fanno a partire dal Natale sanno spesso di buonismo e di speranza a buon mercato. Essi sono un segno di poca lealtà con se stessi e con gli altri. Infatti diciamo delle cose che non sono vere e a cui nessuno crede. Ci auguriamo a vicenda lunga vita, felicità, successo, ci facciamo doni che vogliono dire l' affetto che ci portiamo, ma per lo più sappiamo che non è così. La prima lettera espone bene questo stato di cose. Il Natale fa emergere le storture della politica, la gravissima crisi economica che stiamo attraversando, le violenze quotidiane fisiche e psicologiche. E si potrebbero aggiungere tante altre cose ancora. Molti uomini e donne attendono in questo giorno qualcosa, un evento o magari una persona che li tiri su, che restituisca loro l' ottimismo ingenuo che hanno irrevocabilmente perduto; qualcosa di nuovo e di grande, che potrebbe farli tornare indietro. Ma questa speranza è fallace, perché si basa solo sulle nostre forze e dimentica lo Spirito di Dio, il solo capace di aiutarci in maniera efficace. Dopo i giorni delle feste tutto ritorna più o meno come prima. È come un dirsi reciprocamente «ce la faremo», pur sapendo tutti che non è vero. Per vivere bene il Natale e ricavarne quel conforto che è giusto attendersi da questa festa, è necessario sforzarsi di capire ciò che viene detto nei Vangeli. In essi, soprattutto nel Vangelo secondo Luca, emerge un progetto di uomo che vive il dono di Dio nella meraviglia, nella gratitudine e nel distacco. Questo uomo nuovo può essere o un semplice come i pastori o uno studioso come i Magi. Tutti sono chiamati a partecipare all' esperienza dei pastori a cui fu detto: «Vi annunzio una grande gioia» (Lc 2,10). Chi partecipa di questa gioia, si difenderà da quel pericolo che è il Natale del consumismo, che ci impone di non sfigurare davanti ad amici e parenti con costosi regali. Pur avendo la coscienza che molte famiglie fanno fatica a far quadrare il bilancio del mese, si continua a spendere denaro pubblico e privato nella maniera più folle. Si tratta di una gioia semplice, intima, che può convivere anche con momenti di sofferenza e di strazio. Il bambino Gesù è l' immagine di questa fiducia e abbandono alla Provvidenza. Qui va ricordata la parola di Gesù: «chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso» (Mc 10,15). Se noi riusciamo ad affidarci alla Provvidenza di Dio, accettiamo ogni cosa con fiducia, perché fa parte del disegno del Padre. Il Natale guarda alla Pasqua e il presepio contiene allusioni alla morte e risurrezione di Gesù. Esse erano presenti nella riflessione dei Padri. Così, ad esempio, il tema del legno della croce veniva ricordato dalla culla di legno in cui giace Gesù. Le pecore offerte dai pastori ricordano l' agnello immolato. Anche la Madre che si curva sul Figlio ci richiama alla pietà di Maria che tiene tra le braccia il Figlio morto. La liturgia ambrosiana si esprime così: «L' Altissimo viene tra i piccoli, si china sui poveri e salva». Dunque, il senso del Natale ci riporta al centro della nostra redenzione e ci procura una gioia che non avrà mai fine. Un simile atteggiamento positivo può convivere anche con grandi dolori e penosi distacchi. So bene che questi sentimenti di dolore sono i segni di grandi ferite, che si riaprono soprattutto in questi giorni. Quando si vede a tavola un posto vuoto, riemerge il mistero del Crocefisso con le sue piaghe. Ci sarebbe ancora da trattare di come il presepio può essere contemplato anche da non credenti e da atei. Io penso che questo fascino derivi dall' atmosfera profondamente umana che in esso si respira. Una umanità che sa guardare anche al lato invisibile della realtà e si compendia nella preghiera «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini che egli ama». Buon Natale a tutti!

giovedì 23 dicembre 2010

Buon Natale: una novità!

Non crediate che l'amore, per essere autentico, debba essere straordinario. Quello di cui abbiamo bisogno è di amare senza stancarci.
Come arde una lampada?
Mediante il continuo alimento di piccole gocce d'olio. Se le gocce d'olio finiscono, la luce della lampada cesserà, e lo sposo dirà: "Non ti conosco!"
Che cosa sono queste goce d'olio delle nostre lampade?
Sono le piccole cose della vita di ogni giorno: la fedeltà, la puntualità, le piccole parole amabili, un pensiero per gli altri, il nostro modo di fare silenzio, di guardare, di parlare e di agire.
Ecco le vere gocce d'amore che mantengono accesa la nostra vita religiosa con una fiamma molto viva.

Non certcate Gesù lontano da voi: Egli non sta lontano. Sta in voi.
Mantenete accesa la lampada e lo riconoscerete.

Madre Teresa, La gioia di darsi agli altri, p. 131

domenica 19 dicembre 2010

Dietro le mode o dietro la vita: Signore, da chi andremo?

Ritiro di Avvento, 19/12/2010

La vera ricchezza:
Forse alcuni pensano che essere santi non sia per loro. Lasciatemi spiegare cosa intendo dire. Quando si è giovani, si è soliti pensare a persone che stimiamo e ammiriamo, persone alle quali vorremmo assomigliare. Potrebbe trattarsi di qualcuno che incontriamo nella nostra vita quotidiana e che teniamo in grande stima. Oppure potrebbe essere qualcuno di famoso. Viviamo in una cultura della celebrità ed i giovani sono spesso incoraggiati ad avere come modello figure del mondo dello sport o dello spettacolo. Io vorrei farvi questa domanda: quali sono le qualità che vedete negli altri e che voi stessi vorreste maggiormente possedere? Quale tipo di persona vorreste davvero essere?

Quando vi invito a diventare santi, vi sto chiedendo di non accontentarvi di seconde scelte. Vi sto chiedendo di non perseguire un obiettivo limitato, ignorando tutti gli altri. Avere soldi rende possibile essere generosi e fare del bene nel mondo, ma, da solo, non è sufficiente a renderci felici. Essere grandemente dotati in alcune attività o professioni è una cosa buona, ma non potrà mai soddisfarci, finché non puntiamo a qualcosa di ancora più grande. Potrà renderci famosi, ma non ci renderà felici. La felicità è qualcosa che tutti desideriamo, ma una delle grandi tragedie di questo mondo è che così tanti non riescono mai a trovarla, perché la cercano nei posti sbagliati. La soluzione è molto semplice: la vera felicità va cercata in Dio.
Benedetto XVI agli studenti inglesi, 17/9/2010)



Come canne sbattute dal vento? (Leggi e rifletti su Mt 11,2-11)
Cosa cercare? (Leggi e rifletti su Gv 1,35-51)
Signore da chi andremo? (Leggi e rifletti su Gv 6,60-69)



Peccato manchi il discorso di Riccardo, se qualcuno vuole aggiungere qualcosa a commento...










Parole chiave: eccesso, inganno, spreco, consumismo, desideri, essenzialità, autenticità, l'altro, interesse, impegno, scuola... (poi?) ...................................................................................................................

Discorso sul Metodo (p. II)

Ma come fa un uomo che cammina da solo nelle tenebre, decisi di procedere così lentamente e di adoperare in ogni cosa tanta prudenza da evitare almeno di cadere, pur avanzando assai poco. Non volli neppure cominciare a respingere del tutto nessuna delle opinioni che potevano essersi già introdotte fra le mie convinzioni senza passare attraverso la ragione, se non avessi prima impiegato il tempo necessario a disegnare il piano dell'opera a cui mi accingevo, e a cercare il vero metodo per arrivare a conoscere tutte le cose di cui la mia intelligenza fosse capace.

Quando ero più giovane avevo studiato un poco, tra le parti della filosofia, la logica, e, delle matematiche, l'analisi geometrica e l'algebra, tre arti o scienze che sembrava dovessero contribuire in qualche modo al mio disegno. Ma esaminandole, mi accorsi che, per quanto riguarda la logica, i suoi sillogismi e la maggior parte dei suoi precetti servono, piuttosto che ad apprendere, a spiegare ad altri le cose che si sanno, o anche, come l'arte di Lullo, a parlare senza giudizio di quelle che si ignorano. E benché contenga di fatto numerosi precetti molto veri e molto buoni, a questi se ne mescolano altrettanti che sono nocivi o superflui, sicché è quasi altrettanto difficile districarne i primi quanto tirarne fuori una Diana o una Minerva da un blocco di marmo non ancora sbozzato. Per quanto mi riguarda poi l'analisi degli antichi e l'algebra dei moderni, oltre al fatto che si riferiscono solo a oggetti molto astratti e che non sembrano avere nessuna utilità, la prima è sempre così strettamente unita alla considerazione delle figure, che non può esercitare l'intelletto senza una gran fatica per l'immaginazione; e nell'altra ci si è resi schiavi di certe regole e formule tanto da farla diventare un arte confusa e oscura che impaccia l'ingegno invece che una scienza che l'accresce. Perciò pensai che fosse necessario cercare un altro metodo che, raccogliendo i pregi di queste tre, fosse immune dai loro difetti. E come un gran numero di leggi riesce spesso a procurare scuse ai vizi, tanto che uno stato è molto meglio ordinato quando, avendone assai poche, vi sono rigorosamente osservate; così, in luogo del gran numero di regole di cui si compone la logica, ritenni che mi sarebbero bastate le quattro seguenti, purché prendessi la ferma e costante decisione di non mancare neppure una volta di osservarle.

La prima regola era di non accettare mai nulla per vero, senza conoscerlo evidentemente come tale: cioè di evitare scrupolosamente la precipitazione e la prevenzione; e di non comprendere nei miei giudizi niente più di quanto si fosse presentato alla mia ragione tanto chiaramente e distintamente da non lasciarmi nessuna occasione di dubitarne.

La seconda, di dividere ogni problema preso in esame in tante parti quanto fosse possibile e richiesto per risolverlo più agevolmente.

La terza, di condurre ordinatamente i miei pensieri cominciando dalle cose più semplici e più facili a conoscersi, per salire a poco a poco, come per gradi, sino alla conoscenza delle più complesse; supponendo altresì un ordine tra quelle che non si precedono naturalmente l'un l'altra.

E l'ultima, di fare in tutti i casi enumerazioni tanto perfette e rassegne tanto complete, da essere sicuro di non omettere nulla.

Quelle lunghe catene di ragionamenti, tutti semplici e facili, di cui sogliono servirsi i geometri per arrivare alle più difficili dimostrazioni, mi avevano indotto a immaginare che tutte le cose che possono rientrare nella conoscenza umana si seguono l'un l'altra allo stesso modo, e che non ce ne possono essere di così remote a cui alla fine non si arrivi, né di così nascoste da non poter essere scoperte; a patto semplicemente di astenersi dall'accettarne per vera qualcuna che non lo sia, e di mantenere sempre l'ordine richiesto per dedurre le une dalle altre. Né mi fu molto difficile la ricerca di quelle da cui bisognava cominciare: sapevo già infatti che dovevano essere le più semplici e facili a conoscersi; e considerando che di tutti coloro che hanno finora cercato le verità nelle scienze solo i matematici han potuto trovare qualche dimostrazione, e cioè delle ragioni certe ed evidenti, non dubitavo che avrei dovuto incominciare dalle stesse cose prese in esame da loro; anche se non speravo di ricavarne nessun'altra utilità se non quella di abituare la mia mente a nutrirsi di verità e a non contentarsi di false ragioni.

Ma non volevo, con questo, mettermi a imparare tutte quelle scienze particolari che son dette comunemente matematiche; e vedendo che, sebbene i loro oggetti siano diversi, pure concordano tutte tra loro nel considerare soltanto le varie proporzioni o rapporti in essi racchiusi, pensai che fosse meglio esaminare soltanto queste proporzioni in generale, supponendole solo in oggetti che potessero rendermene la conoscenza più agevole, ma non limitandole in nessun modo a questi ultimi, e questo per riuscire in seguito ad applicarle altrettanto bene a tutti gli altri cui potessero convenire. Poi, essendomi accorto che per conoscerle avrei avuto bisogno a volte di considerarle ognuna in particolare, a volte di ricordarle soltanto o di comprenderne molte insieme, pensai che, per meglio studiarle in particolare, dovevo raffigurarle in forma di linee, giacché non trovai niente di più semplice o che potessi più distintamente rappresentare alla mia immaginazione e ai miei sensi; e per ricordarle e per comprenderne molte insieme, dovevo invece esprimerle con qualche cifra tra le più brevi possibili. In questo modo avrei colto tutto il meglio dell'analisi geometrica e dell'algebra e corretto i difetti dell'una con l'altra.

Oso dire che la scupolosa osservanza dei pochi precetti che avevo scelto mi rese così facile la soluzione di tutti i problemi di quelle due scienze, che nei due o tre mesi dedicati a studiarli, avendo iniziato dai più semplici e generali, e diventando ogni verità che acquistavo una regola che mi consentiva di trovarne in seguito altre, non soltanto venni a capo di molte questioni che un tempo avevo giudicato assai difficili, ma mi sembrò anche, verso la fine, che avrei potuto stabilire, anche per quelle che ignoravo, con quali mezzi e fino a che punto fosse possibile risolverle. E in questo non vi sembrerò forse troppo vanitoso, se considererete che, essendoci di ogni cosa una sola verità, chiunque la trovi ne sa tanto quanto se ne può sapere; come, per esempio, un ragazzo che ha imparato l'aritmetica, fatta una addizione seguendo le sue regole, può essere certo di aver trovato, a proposito della somma cercata, tutto quel che l'intelligenza umana può trovarne. Perché insomma il metodo che ci insegna a seguire il vero ordine e a enumerare esattamente tutti i dati di quel che si cerca, contiene tutto ciò che dà certezza alle regole dell'aritmetica.

Ma quel che mi soddisfaceva di più in questo metodo era il fatto che, grazie ad esso, ero certo di usare sempre la mia ragione, se non perfettamente, almeno nel miglior modo possibile per me; e adoperandolo sentivo anche che il mio intelletto si abituava a poco a poco a concepire più nettamente e distintamente i suoi oggetti, e che, non avendolo limitato a nessun oggetto in particolare, potevo sperare di applicarlo alle difficoltà delle altre scienze con altrettanto successo, come mi era accaduto con quelle dell'algebra. Non che per questo osassi affrontare subito l'esame di tutti i problemi che si potessero presentare: sarebbe stato contrario proprio all'ordine prescritto dal metodo. Ma avendo considerato che i loro princìpi dovevano derivare tutti dalla filosofia, nella quale non ne trovavo ancora di certi, pensai che fosse necessario per me prima di tutto cercare di stabilirne qualcuno; e che essendo questa la cosa al mondo più importante in cui l'anticipazione e la precipitazione sono più da temere, non dovevo tentare di venirne a capo prima di aver raggiunto una età ben più matura dei ventitre anni che avevo allora. Avrei prima impiegato molto tempo a prepararmi a questo compito, sia sradicando dalla mia mente tutte le false opinioni che avevo già ricevuto, sia accumulando molte esperienze, destinate a diventare in seguito materia dei miei ragionamenti; e questo, continuando a esercitarmi nel metodo che mi ero prescritto, per acquistare in esso una sempre maggiore sicurezza.

R. Descartes, Discours de la Méthode, II.

mercoledì 8 dicembre 2010

Dal messaggio di Benedetto XVI agli studenti inglesi del 17 settembre 2010

Forse alcuni pensano che essere santi non sia per loro. Lasciatemi spiegare cosa intendo dire. Quando si è giovani, si è soliti pensare a persone che stimiamo e ammiriamo, persone alle quali vorremmo assomigliare. Potrebbe trattarsi di qualcuno che incontriamo nella nostra vita quotidiana e che teniamo in grande stima. Oppure potrebbe essere qualcuno di famoso. Viviamo in una cultura della celebrità ed i giovani sono spesso incoraggiati ad avere come modello figure del mondo dello sport o dello spettacolo. Io vorrei farvi questa domanda: quali sono le qualità che vedete negli altri e che voi stessi vorreste maggiormente possedere? Quale tipo di persona vorreste davvero essere?

Quando vi invito a diventare santi, vi sto chiedendo di non accontentarvi di seconde scelte. Vi sto chiedendo di non perseguire un obiettivo limitato, ignorando tutti gli altri. Avere soldi rende possibile essere generosi e fare del bene nel mondo, ma, da solo, non è sufficiente a renderci felici. Essere grandemente dotati in alcune attività o professioni è una cosa buona, ma non potrà mai soddisfarci, finché non puntiamo a qualcosa di ancora più grande. Potrà renderci famosi, ma non ci renderà felici. La felicità è qualcosa che tutti desideriamo, ma una delle grandi tragedie di questo mondo è che così tanti non riescono mai a trovarla, perché la cercano nei posti sbagliati. La soluzione è molto semplice: la vera felicità va cercata in Dio.

[to be continued...]

Facendo i compiti di Fred: riflettendo su scuola, interessi, fare e studiare...

Doc. 1, E. Raimondi, Camminare nel tempo:
L'esperienza dell'insegnamente e dell'apprendimento più che ad una trasmissione di nozioni equivale ad un'esperienza dello stare insieme. Coincide con il condividere qualcosa con altri. E insisterei proprio sulla parola insieme. La lezione per me, sia da allievo sia da docente, ha sempre coinciso con il gusto di stare insieme e di non essere solo, nella prefigurazione di quella che si vorrebbe fosse sempre l'esistenza: un incontro con altre persone, fare insieme qualcosa, trovarsi d'accordo, sentire che esistono ragioni per cui vale la pena di essere insieme, camminare insieme. A proposito dell'insegnare e dell'imparare insisto su questo motivo dell'andare e dello stare insieme e, se possibile, di suscitare nell'altro uno stimolo, trovando il modo non di sovrapporre nell'altro qualcosa di mio, ma di far crescere nell'altro quello che inconsapevolmente è già dentro di lui. E l'orgoglio, il piacere istintivo è quello di fare diventare l'altro più se stesso. La classe è una comunità con le sue personalità fresche, libere, talvolta intorpidite che vanno svegliate.

Doc 2. Dante: su Brunetto Latini, la cara e buona immagine paterna/ di voi quando nel mondo a ora a ora/ m'insegnavate come l'uom s'etterna.

Doc. 3, O. Wilde, Il Ritratto di Dorian Gray:

Adoperare la propria influenza su una creatura è una cosa affascinante. Nessuna attività puà esserle paragonata. Modellare il proprio spirito su una forma squisita, e lasciarvelo indugiare. Ascoltare la propria anima riflessa da un'eco e arricchita di tutta la musica della passione e della giovinezza. Permeare la propria personalità in un'altra, come se fosse un fluido, o un sottile profumo. Era un meraviglioso individuo il ragazzo incontrato per caso: si sarebbe potuto plasmarlo: se ne poteva fare un titano o un burattino.
(L'esempio qui è negativo per eccellenza, ma non credete che possa valere anche per i cattivi maestri della noia: per quelli che, annoiati da tutto e da loro stessi, vi abituano a pensare male, cioè in modo banale?)

A. Camus, Il primo uomo:
Col Sig. Bernard, le lezioni erano sempre interessanti, per la semplice ragione che lui amava apassionatamente il proprio mestiere, appagava una sete ancor più essenziale per il ragazzo che per l'adulto, la sete della scoperta. Certo, anche nelle altre classi insegnavano molte cose, ma un po' come si ingozzano le oche. Si presentava un cibo preconfezionato e si invitavano i ragazzi ad inghiottirlo. Nella classe del Sig. Bernard, per la prima volta in vita loro, sentivano invece di esistere e di essere oggetto della più alta considerazione, li si giudicava degni di scoprire il mondo.

B. Obama, Discorso inaugurale per l'inizio dell'anno scolastico, 18.9.09:

Ora, io ho fatto un sacco di discorsi sull’istruzione. E ho molto parlato di responsabilità. Della responsabilità degli insegnanti che devono motivarvi all’apprendimento e ispirarvi. Della responsabilità dei genitori che devono tenervi sulla giusta via e farvi fare i compiti e non lasciarvi passare la giornata davanti alla tv. Ho parlato della responsabilità del governo che deve fissare standard adeguati, dare sostegno agli insegnanti e togliere di mezzo le scuole che non funzionano, dove i ragazzi non hanno le opportunità che meritano. Ma alla fine noi possiamo avere gli insegnanti più appassionati, i genitori più attenti e le scuole migliori del mondo: nulla basta se voi non tenete fede alle vostre responsabilità. Andando in queste scuole ogni giorno, prestando attenzione a questi maestri, dando ascolto ai genitori, ai nonni e agli altri adulti, lavorando sodo, condizione necessaria per riuscire.

Questo è quello che voglio sottolineare oggi: la responsabilità di ciascuno di voi nella vostra educazione. Parto da quella che avete nei confronti di voi stessi. Ognuno di voi sa far bene qualcosa, ha qualcosa da offrire. Avete la responsabilità di scoprirlo. Questa è l’opportunità offerta dall’istruzione. Magari sapete scrivere bene, abbastanza bene per diventare autori di un libro o giornalisti, ma per saperlo dovete scrivere qualcosa per la vostra classe d’inglese. Oppure avete la vocazione dell’innovatore o dell’inventore, magari tanto da saper mettere a punto il prossimo i Phone o una nuova medicina o un vaccino, ma non potete saperlo fino a quando non farete un progetto per la vostra classe di scienze.

Oppure potreste diventare un sindaco o un senatore o un giudice della Corte suprema ma lo scoprirete solo se parteciperete a un dibattito studentesco. Non è solo importante per voi e per il vostro futuro. Che cosa farete della vostra possibilità di ricevere un’istruzione deciderà il futuro di questo Paese, nulla di meno. Ciò che oggi imparate a scuola domani sarà decisivo per decidere se noi come nazione sapremo raccogliere le sfide che ci riserva il futuro. Avrete bisogno della conoscenza e della capacità di risolvere i problemi che imparate con le scienze e la matematica per curare malattie come il cancro e l’Aids e per sviluppare nuove tecnologie ed energie e proteggere l’ambiente. Avrete bisogno delle capacità di analisi e di critica che si ottengono con lo studio della storia e delle scienze sociali per combattere la povertà e il disagio, il crimine e la discriminazione e rendere la nostra nazione più corretta e più libera.

Vi occorreranno la creatività e l’ingegno che vengono coltivati in tutti i corsi di studio per fondare nuove imprese che creeranno posti di lavoro e faranno fiorire l’economia. So che non è sempre facile far bene a scuola. So che molti di voi devono affrontare sfide tali da rendere difficile concentrarsi sui compiti e sull’apprendimento. [...]
Il vostro obiettivo può essere molto semplice: fare tutti i compiti, fare attenzione a lezione o leggere ogni giorno qualche pagina di un libro. Potreste decidere di intraprendere qualche attività extracurricolare o fare del volontariato. Potreste decidere di difendere i ragazzi che vengono presi in giro o che sono vittime di atti di bullismo per via del loro aspetto o delle loro origini perché, come me, credete che tutti i bambini abbiano diritto a un ambiente sicuro per studiare e imparare. Potreste decidere di avere più cura di voi stessi per rendere di più e imparare meglio.

E in tutto questo, spero vi laviate molto le mani e ve ne stiate a casa se non state bene in modo da evitare il più possibile il contagio dell’influenza quest’inverno. Qualunque cosa facciate voglio che vi ci dedichiate. So che a volte la tv vi dà l’impressione di poter diventare ricchi e famosi senza dover davvero lavorare, diventando una star del basket o un rapper, o protagonista di un reality. Ma è poco probabile, la verità è che il successo è duro da conquistare.

Non vi piacerà tutto quello che studiate. Non farete amicizia con tutti i professori. Non tutti i compiti vi sembreranno così fondamentali. E non avrete necessariamente successo al primo tentativo. È giusto così. Alcune tra le persone di maggior successo nel mondo hanno collezionato i più enormi fallimenti. Il primo Harry Potter di JK Rowling è stato rifiutato dodici volte prima di essere finalmente pubblicato. Michael Jordan fu espulso dalla squadra di basket alle superiori e perse centinaia di incontri e mancò migliaia di canestri durante la sua carriera. Ma una volta disse: «Ho fallito più e più volte nella mia vita. Ecco perché ce l’ho fatta».

Nessuno è nato capace di fare le cose, si impara sgobbando. Non sei mai un grande atleta la prima volta che tenti un nuovo sport. Non azzecchi mai ogni nota la prima volta che canti una canzone. Occorre fare esercizio. Con la scuola è lo stesso. Può capitare di dover fare e rifare un esercizio di matematica prima di risolverlo o di dover leggere e rileggere qualcosa prima di capirlo, o dover scrivere e riscrivere qualcosa prima che vada bene. La storia dell’America non è stata fatta da gente che ha lasciato perdere quando il gioco si faceva duro ma da chi è andato avanti, ci ha provato di nuovo e con più impegno e ha amato troppo il proprio Paese per fare qualcosa di meno che il proprio meglio.

Scuola: per creare interessi e per decidere le nostre scelte...

sabato 20 novembre 2010

Il consumismo ti consuma; la sobrietà non è povertà e l'accumulo non è felicità


Noto slogan, citato tra l'altro da Z. Bauman in Vite di corsa, esemplifica tra la condizione attuale che viviamo in Italia, in cui la pubblicità e gli atteggiamenti della pubblicità dominano sulla politica e in tutti i campi della vita dell'uomo. Si assiste al detrimento del nostro essere uomini, perché il consumismo vive sulla "vegetazione" di desideri inappagati: la non soddisfazione è la realizzazione apicale del consumismo.
Inapaggati e inappagabili, poiché inseriti in un flusso continuo di novità e di cambiamento in cui i soggetti non hanno più appiglio cui aggrapparsi e non hanno più tempo per sé; entro questo flusso casuale (che riguarda non solo pochi ambiti della società, ma la maggior parte di essa) creare narrazioni, ordini e sequenze evolutive è sempre più difficile e i frammenti prendono il sopravvento e le cose galleggiano con lo stesso peso specifico nell'inarrestabile corrente del denaro. La società dei consumi, la nostra, ci inserisce all'interno di un flusso in cui manca la sostanzialità delle cose. Di conseguenza anche i nostri sentimenti vengono bruciati perché eguagliati a tutto il resto: spazzatura e affetto si somigliano nel rapido vortice del consumismo.
Spreco, eccesso e inganno vanno di pari passo. E la nostra vita, caratterizzata dalla brevità, dal transitorio e dall'oblio, è un incerto vagare tra mille cose, tutte inutili e incapaci di permetterci di conoscere noi stessi.
Annegati nel mare del superfluo, in cui è il denaro a indicarci quale via seguire, si vive in condizioni di straziante ed incurabile incertezza, perché minacciati di restare indietro, di venire esclusi dal gioco della società, ecc. Prendere la vita a frammenti non può essere la nostra soluzione, né farci governare dal denaro...

Vendola su L'Aquila

venerdì 5 novembre 2010

Pubblicità, consumismo, conformismo

Qualche riflessione sull'incontro di ieri o su qualcosa che non è stato detto? Se avete materiale (video o testi), mandate...

Nella pubblicità, più forte della passione è l'illusione...

domenica 24 ottobre 2010

Nel dolore per Davide, accettiamo di essere fragili

Articolo su La Repubblca - Bologna, di G. Verasani.

Quando un essere umano si toglie la vita, levento ci agghiaccia, ci turba, calamita i nostri "cosmici" interrogativi. Se è il suicidio di qualcuno a noi vicino, può insorgere la rabbia per un atto "egoistico" che provoca lo strazio di chi reta, oppure si fa largo il senso di colpa di non avere intuito, impedito, fatto abbastanza. C'è chi pianifica la propria fuga, e chi la mette in atto senza premeditarla (il più delle volte). Qualunque siano le ragioni di un gesto così irreparabile, siamo tutti chiamati, in primo luogo, a rispettare l'insostenibilità del dolore che deborda e che fa sì che la vita, sulla bilancia, valga meno del suo contrario. Se a "fuggire" è un ragazzo, forse la cosa più importante da chiedersi è perché noi adulti non sappiamo parlare della paura.
Paura di vivere, già. Paura del domani, paura che il futuro sia un grande buco nero, che ci sia ben poco da aspettarsi, che occorra essere dei superuomini per conquistarsi uno spazio. Chi li ha caricati di paura? Non sarebbe meglio, allora, parlare della fragilità, e non della forza, come di un fondamentale valore di scambio?
UN ragazzo di quindici anni che si toglie la vita provoca un trauma così annichilente che la comunità si stringe, accoglie quel dolore spiazzante: non lo capisce ma lo fa suo. E' questo che va fatto. Pacatamente, a bassa voce, consapevoli che non c'è una risposta, e che il rebus resterà irrisolto (perché si tratta della vita, non di un romanzo giallo).
Alcuni ragazzi del liceo Fermi si chiedono come è possibile che un loro coetaneo senza ombre, che se ne va ribadendo il suo affetto, senza additare colpe, il classico ragazzo "che mai te lo saresti immaginato", che "altri sì, ma lui no", "il ragazzo che aveva tutto", insospettabile, apparentemente sereno, si sia ucciso.
Tanti anni fa, un amico mi raccontò che un suo compagno di liceo, bello, intelligente, felice, un giorno spinse l'acceleratore contro un grosso Tir, deliberatamente. E anche lì si disse: "Ma come? Aveva tutto!"
Ma cos'è questo tutto?
Qui c'è un padre che dice: "Aiutatemi a capire!", e la televisione gli risponde: "Parlate ai vostri figli!", come se fosse uno slogan.
Il problema è che della morte, del dolore, persino del dolore di non provare dolore, non sappiamo parlare ai ragazzi. Essi sono attanagliati dall'ansia di sbagliare, di competere, di emozionarsi, possedere cose, avere un'immagine. Possibile che solo Vasco Rossi spieghi loro che la vita forse non ha senso, am che quel senso vale la pena cercarlo? Non c'è da stupirsi se la confusione, i dubbi, lo stress, si traducono, in certi casi estremi, nel deprezzamenteo della vita come atto di silenzio antagonistico al rumore più assordante, al caos più indecifrabile. Un silenzio, quello di Davide, che è fine dei tormenti e delle gioie.
Non possiamo entrare in quel tormento, che resterà sempre insoluto. Possiamo solo sforzarci di spiegare ai ragazzi come lui che essere forti significa accettare di essere deboli, perché siamo umani, fallibili, imperfetti, e che l'unica forza possibile è condividere le nostre debolezze.
Davide non ha trovato un altro modo di reagire. Per quanto ci sembri assurdo, per quanto dolore provochi, prima di ogni analisi sociologica è alla sua vita e alla sua morte che dobbiamo portare rispetto, che è anche il rispetto verso noi stessi, e verso la nostra immensa, imperscrutabile fragilità.

martedì 19 ottobre 2010

Preghiera + Incontro domenica!!!

Al termine della strada.
      Al termine della strada,
      non c’è la strada
      ma il traguardo.

      Al termine della scalata,
      non c’è la scalata
      ma la sommità.

      Al termine della notte,
      non c’è la notte
      ma l’aurora.

      Al termine dell’inverno,
      non c’è l’inverno,
      ma la primavera.

      Al termine della disperazione,
      non c’è la disperazione,
      ma la speranza.

      Al termine della morte,
      non c’è la morte
      ma la vita.

      Al termine dell’umanità,
      non c’è l’uomo,
      ma c’è l’Uomo –Dio

      J. Folliet














DOMENICA 24, ORE 18.00, INCONTRO CON I GENITORI!!!


A SEGUIRE, ORE 19.30, CENA ASSIEME: PORTATE IL SALATO!!!

sabato 25 settembre 2010

Servizio al campo Caritas di Pile, L'Aquila

E' difficile trarre delle conclusioni da quello che sono stati questi 11 giorni di servizio a L'Aquila: per quanto mi riguarda, sono stata là abbastanza per capire che devo ancora capire molte cose. Sono stati giorni intensi, non solo e non tanto per la fatica fisica quanto per quella psicologica: sono tornata con parecchio “materiale” su cui riflettere e con la sensazione di aver vissuto ogni singolo momento. A ognuno di noi sono rimaste impressioni a volte molto diverse tra loro e quindi mi limito a tentare di esprimere le mie, in cui so che alcuni si riconosceranno, altri meno.
Ero partita spinta prima di tutto dal desiderio di toccare con mano la situazione a distanza di più di un anno dal terremoto e non mi facevo troppe illusioni sul contributo che avrei potuto dare: convinta che l'esperienza diretta valga più di mille discorsi, volevo soprattutto immergermi in quella realtà mettendomi in gioco e in discussione, per riportarla a casa nei racconti e nei ricordi ma anche per lasciare là qualcosa di me.
Siamo stati catapultati a L'Aquila in una settimana particolare, per via della festa della Perdonanza e di tutto ciò che l'ha preceduta: la salma di Celestino V che girava per le parrocchie e che era arrivata proprio quel giorno sotto il tendone/chiesa del nostro campo, la Marcia della Pace del Sermig...perfino un concerto di Fiorella Mannoia (della quale noi ragazze siamo diventate da quel momento fan sfegatate)! Questo ha fatto sì che al campo ci fossero ritmi serrati e una certa tensione, dovuti al gran numero di lavori e spostamenti da organizzare, e l'accoglienza non è stata delle migliori, cosa che inizialmente mi ha un po' spiazzata. Oltre a questo, siccome le serate erano tutte occupate dagli eventi a cui ho accennato prima, a cui abbiamo partecipato facendo anche servizio di sicurezza, all'inizio si è sentita la mancanza di momenti di condivisione e conoscenza con gli altri abitanti del campo.
Ma a parte l'inizio burrascoso (e a parte il trauma quotidiano della sveglia alle sei), tutto il resto, in particolare durante la seconda settimana, è stato per me un motivo continuo di entusiasmo e riflessione, a partire dai lavori manuali (come pulire le aule che ospiteranno l'università o sistemare il giardino di una scuola elementare) per arrivare alle serate passate a cantare e scherzare ma anche ad ascoltare le testimonianze dei volontari in arrivo o in partenza e dei “fissi”, che sono là da mesi o da più di un anno. Alcuni di loro hanno alle spalle una storia che non sospetteresti conoscendoli adesso (chi ha una passato di tossicodipendenza, chi di vagabondaggio...); ancora una volta ho potuto constatare che spesso nel servizio si riceve più di ciò che si dà.
Una sera hanno partecipato alla serata anche i parrocchiani di Pile, che per la maggior parte sono arrivati lì dopo il terremoto; ricorderò sempre una donna che, pur avendo perso la casa, ringraziava per il dono di poter ancora guardare ogni mattina negli occhi verdi di suo figlio. Ho conosciuto persone veramente in gamba, come Sara, che ho accompagnato nei cosiddetti “giri”, durante i quali andava a visitare varie persone registrate dalla Caritas, per portare aiuti e assistenza ma spesso anche “solo” un po' di compagnia. Questa è una delle attività principali dei fissi: hanno suddiviso L'Aquila, che come Comune comprende un territorio molto esteso (Onna, per esempio, è una sua frazione), in nove zone e ognuno si occupa di una di esse, aggiornando continuamente su un quaderno l'evolversi della situazione degli assistiti. Prima del terremoto, per l'intera città dell'Aquila c'erano solo tre assistenti sociali. Per questo, subito dopo il sisma sono emerse situazioni di grosso disagio preesistenti; una delle prime iniziative della Caritas è stata quindi quella di entrare in contatto, nelle tendopoli e anche all'infuori di esse (tra coloro che erano rimasti in casa, perlopiù anziani), con queste persone, continuando a seguirle anche dopo la chiusura dei campi. Sara era al campo da più di un anno ed erano i suoi ultimi giorni lì; è stato commovente vedere l'affetto col quale tutti i suoi “assistiti” la salutavano e il rapporto che aveva creato con loro.
Nonostante i miei momenti di nervosismo, dovuto alla stanchezza, è stato fondamentale per me essere andata là con gli amici, quelli che mi conoscono da una vita e che considero la base su cui poter contare. Condividendo la fatica l'ho sentita di meno e, anzi, mi sono divertita molto e ho avuto la conferma del valore di ognuno di loro.
Ci siamo messi in gioco, quindi ci dividevamo nelle varie attività e per la maggior parte della giornata non ci vedevamo, ma è stato bello trovarsi tutti insieme a pranzo (o solo a cena, per chi era al Grest, una specie di Estate Ragazzi) con tante esperienze diverse da raccontare e con la voglia di prendere fiato in compagnia, suonando e cantando sotto il gazebo.
Ci siamo messi in gioco e abbiamo vinto insieme: devo per metà a loro la riuscita di questo campo.
L'altra metà è merito del campo in sé, della bellezza del servizio. A un certo punto del nostro giro, Sara mi ha detto una frase che mi ha colpito molto: “La gente si stupisce del fatto che stiamo qui da così' tanto, ma in realtà la cosa difficile non è rimanere, ma decidere di partire e riprendere la propria vita”. In effetti mi sono bastati undici giorni là per uscire completamente dal mio mondo e abituarmi alla vita del campo, come se fosse la normalità; non mi è difficile capire la scelta di chi ci è rimasto per così tanto. Il rientro a casa, a settembre, con l'inizio della scuola ormai incombente, i mille impegni, il rumore, la routine e la noia in agguato, non è stato facile, ho sofferto un po' di “mal d'Aquila”, di nostalgia per quelle giornate piene in cui ogni minuto era davvero speso per qualcosa di utile e bello. Spero di essermi portata un po' di quell'energia qua a Bologna. Intanto penso di aver iniziato a fare la mia parte raccontando quello che ho vissuto là e che...spero di rivivere, quando ci torneremo nelle vacanze di Natale!

La “situazione”
Quando sono tornata, in molti mi hanno chiesto della “situazione aquilana”. Vorrei poter descrivere un quadro generale, ma non ho dati sufficienti; posso però affermare con sicurezza che la realtà è molto diversa e più complessa di quello che ci hanno fatto vedere i media.
Un esempio? Le prime case del progetto C.A.S.E. (che là chiamano “le case di Berlusconi”) sono state consegnate a partire dal 29 settembre 2010 (anche se gli ultimi edifici sono stati completati il 19 febbraio, in base ai dati del sito della Protezione Civile), ma l'ultima tendopoli, quella di Piazza d'Armi, è stata chiusa definitivamente solo il 25 novembre. Degli alloggi costruiti dal Governo, dalla Protezione Civile o da donatori come le Regioni (che comprendono i MAP, cioè le casette in legno, e blocchi abitativi del progetto C.A.S.E.) hanno usufruito circa 18˙000 persone (dati tratti da “Il centro”, quotidiano locale), altre 25˙000 invece godono del contributo di autonoma sistemazione (CAS), cioè si sono arrangiate contando su un assegno governativo; i finanziamenti però sono a singhiozzo e non arrivano più da aprile (per alcuni comuni, addirittura da gennaio). Alcune migliaia di persone, tra cui molti anziani, sono ancora negli hotel sulla costa (che dista 70 km dall'Aquila).
Ma non bastano un tetto e un piatto di pasta per vivere. L'economia all'Aquila non è mai stata molto sviluppata e dal terremoto in poi è rimasta congelata; neanche le vie di comunicazione col resto d'Italia sono particolarmente agevoli. Un'importante fattore economico era costituito dall'università, che contando 30˙000 studenti (sui circa 100˙000 abitanti) creava un certo giro, ma dopo il sisma ovviamente non tutte le facoltà hanno riaperto e comunque molti se ne sono dovuti andare. Il tessuto sociale si è sfilacciato, molti sono stati costretti a trasferirsi lontano dal loro paese d'origine e dalla loro casa, mancano luoghi di ritrovo perchè il centro è chiuso (ad eccezione di una strada che lo attraversa da parte a parte e su cui sono aperti sì e no una decina di negozi, quasi tutti bar): a quanto mi hanno detto, ora il punto di riferimento giovanile è il nuovo centro commerciale “L'Aquilone”.
In centro, sulle transenne sono appesi cartelloni e foto di protesta per come è stata gestita la ricostruzione; nella piazza del duomo (l'unica aperta) c'è un tendone con su scritto “Riprendiamoci la città”, ed è lì da subito dopo il terremoto. L'iniziativa locale è stata soffocata fin dall'inizio, tutti gli interventi sono stati prerogativa della Protezione Civile, ma il centro è ancora chiuso per il 90% e i tempi della ricostruzione aumentano continuamente: ho conosciuto una signora, che vive in un garage col pavimento di terra battuta, a cui avevano promesso che la sua casa sarebbe stata pronta un anno fa.
La gente ha provato a trovare una nuova normalità, ma adesso è tornata la paura: negli ultimi mesi uno sciame sismico ha portato una nuova ondata di scosse che hanno messo tutti in allerta, tra le quali una di magnitudo 3.6 proprio quando eravamo là (ma che io non ho sentito). Il giorno dopo abbiamo fatto il giro a parlare con la gente: tutti ne parlavano, erano angosciati; il centro è stato chiuso completamente, perchè gli edifici sono solo puntellati e rischiano ancora il crollo, un paesino è stato evacuato e alcuni hanno ricominciato a dormire in macchina. Giuliani, che aveva previsto il terremoto del 2009, sostiene che c'è il rischio di un'altra forte scossa; alcuni con cui ho parlato quasi speravano che arrivasse subito: come si fa a ricostruire se tutto può crollare di nuovo?

E' difficile comprendere davvero la tragedia del terremoto, per noi che non l'abbiamo vissuto in prima persona. Ma mentre camminavo nell'unica strada aperta, fiancheggiata dalle transenne, e guardando in alto sembrava che gli edifici avessero pareti invisibili, perchè si vedeva l'interno delle stanze, con tutti gli oggetti rimasti dov'erano quella notte; mentre buttavo l'occhio aldilà della recinzione arancione flash, che delimita il vuoto lasciato da quella che era la Casa dello Studente; mentre leggevo le locandine di film usciti più di un anno fa, ho provato a immaginare come sarebbe stato se tutto questo fosse successo a Bologna, alla mia città, la città che amo.
Ho pensato che se mi fosse andata fatta bene, se i miei cari fossero tutti sopravvissuti, se la mia casa fosse rimasta in piedi, anche così avrei perso per sempre un pezzo di me e della mia vita. Mi vedo camminare per via Rizzoli, guardandomi intorno: le facciate dei palazzi sono puntellate da travetti di legno e acciaio, il fondo stradale lastricato è sollevato in più punti, come un'onda congelata; andando avanti, do un'occhiata a sinistra: piazza Nettuno è vuota, un silenzio irreale svuota lo spazio, la Salaborsa è chiusa e comunque ormai non ci sono più studenti a cui possa servire. Anche piazza Maggiore è inagibile. Provo ad avvicinarmi alle transenne e tutto quello che vedo è un cumulo di macerie; anzi no, la facciata di San Petronio è ancora in piedi... è tutto il resto della chiesa che non c'è più. Basta, basta così, fa già abbastanza male, non serve vedere altro. Tornando sui miei passi l'occhio segue la linea della strada: una strana sensazione, qualcosa non quadra. Mi blocco, ho capito: le Due Torri sono crollate, al loro posto ci sono due moncherini circondati da detriti, come due mozziconi di sigaretta spenti nelle loro stesse ceneri. Capisco quanto erano importanti tante piccole cose che davo per scontate, il sabato sera in via Zamboni, i pomeriggi passati a gironzolare nelle viuzze del centro, l'atmosfera ovattata e surreale della biblioteca; a ogni luogo erano legati dei ricordi, che adesso sono irriconoscibili sotto la polvere di cemento. I miei amici non li vedo quasi mai, molti se ne sono andati, alcuni per sempre. Non c'è più vita, non c'è futuro qui.

Questo è l'unico modo che ho trovato per sentire, anche solo per un istante, quello che dev'essere stata la quotidianità dei cittadini aquilani da quella notte. La speranza di questa città ha un tempo limitato, tutto deve ripartire in questi primi anni, prima che la gente si costruisca una nuova vita da un'altra parte. Non so, davvero, cosa possiamo fare noi, se non testimoniare quello che abbiamo visto, tenerci informati sugli sviluppi e appoggiare tutte le iniziative che possano donarle al più presto un nuovo volto, aiutando chi, nella rassegnazione generale, non ha ancora gettato la spugna.

M. Chiara

mercoledì 22 settembre 2010

L'Aquila, l'ultimo custode della città distrutta - Un'analisi sul terremoto e sui danni della politica

Commento su La Repubblica di un libro di Erbani sull'Aquila: Disastro...

Il racconto parte dalla notte del 6 aprile 2009 e arriva fino ad oggi. Passando per le speculazioni degli affaristi, le new town, il rischio di diventare come Pompei. ll silenzio non mi fa paura. Mi fa paura la città che muore. In poche ore, dopo il sisma, 45 mila persone sono scomparse dalla città. Da oltre un anno sono l´unico abitante del centro storico». Raffaele Colapietra, anni 80, una vita passata a insegnare storia all´università di Salerno, è il simbolo di un´Aquila che dopo il terremoto ha difeso la propria identità e cercato un futuro. È anche il “testimone chiave” de Il disastro. L´Aquila dopo il terremoto: le scelte e le colpe, scritto da Francesco Erbani, edizioni Laterza. Questa almeno l´impressione, dopo la lettura delle 164 pagine. Il racconto parte da quella notte del 6 aprile 2009 e arriva ai giorni nostri. Ci sono la morte e il dolore, «la cricca» che ride, gli affari, le new town che sorgono e deturpano le campagne e le montagne, i vecchi che negli hotel della costa e del Gran Sasso aspettano un ritorno a casa che non arriverà mai. Ma il professor Colapietra resta sempre “dentro”, e anche quando Francesco Erbani scrive del Friuli e dell´Irpinia, delle scelte fatte in questi luoghi lontani, viene naturale chiedersi: che direbbe, il professore?
Un appartamento a piano terra, in un palazzina bassa costruita a metà del Novecento. Questo il “fortino” di Raffaele Colapietra, il suo punto di osservazione di una città che rischia di diventare come Pompei. «Per cacciarmi hanno minacciato di usare la forza. Sono venuti quelli della Protezione civile e i vigili del fuoco. Un giorno mi hanno mandato anche uno psicologo. Ma io ho detto: il terremoto non c´è più, resto qui». Dalle finestre la vista del Gran Sasso e delle altre abitazioni abbandonate. «Molti di questi edifici con pochi soldi si sarebbero potuti riparare fin da subito. Tanta gente avrebbe potuto tornare a casa a giugno, luglio o anche a settembre del 2009. Quanti soldi avrebbe potuto risparmiare lo Stato che invece manteneva migliaia di persone negli alberghi di Giulianova o a Lanciano? E che valore simbolico avrebbe avuto il rientro in città di cento, cinquanta o anche solo dieci famiglie?». Ha continuato a lavorare, il professore. Dopo il sisma ha scritto, assieme a Mario Centofanti, Aquila, dalla fondazione alla renovatio urbis. Della propria città conosce ogni pietra e ogni documento. Quando esce, per mangiare un boccone in un hotel ancora pieno di sfollati o per comprare il cibo per i suoi gatti, cerca di non vedere i turisti del macabro. «In centro ora si vede molta più gente di un anno fa, ma sono tutti con il naso all´insù, guardano i palazzi crepati, vengono anche gruppi di turisti con la guida. Contemplano. Ecco, il centro dell´Aquila diventerà una struttura da contemplare».
Chi conosce la storia non accetta l´impotenza di oggi di fronte a chi, venuto da fuori, vuole decidere il futuro della città. «Il 2 febbraio 1703 ci fu un devastante terremoto ma l´Aquila non fu sgomberata. Quindici giorni dopo il sisma nella piazza del mercato c´erano già cinquanta baracche con commercianti e artigiani. Una baracca ospitava il Comune e lì venne eletto il nuovo sindaco, essendo il precedente morto sotto le macerie. Ho trovato io il documento. Poi fu nominato un vicario generale addetto alla ricostruzione, Marco Garofalo della Rocca, che già a maggio se ne andò perché i cittadini avevano avviato da soli la riedificazione dei palazzi. Per dieci anni restò in vigore l´esenzione fiscale e il centro fu ricostruito integralmente».
All´Aquila sono invece arrivate le new town, le «case di Berlusconi», e la città è stata trasformata in un set con mille luci per raccontare all´Italia e al mondo le magnificenze del governo. Francesco Erbani racconta ogni momento di questo angosciante post-terremoto, iniziato con le risate di chi, a Roma, già sperava di fare affari. Racconta una città che ha consegnato le proprie chiavi a una Protezione civile che ha deciso di decidere tutto. Ha ascoltato chi, nei sismi precedenti, ha compiuto scelte completamente diverse. Ha ricordato le frasi di chi veniva a promettere miracoli. «La new town sarà un ghetto? Macché. Sarà un quartiere nuovo per giovani senza casa. Le case distrutte, invece, saranno tutte ricostruite. Andate a vedere Milano 2 e Milano 3 e poi ditemi se sono ghettizzati (Silvio Berlusconi nel giorno dei funerali)». I risultati si sono visti. «I bambini dell´Aquila – dice il professor Colapietra – cresceranno senza sapere com´era fatta la loro città».

J. Meletti

Diamoci la carica: scuola, studio e vita – 21/IX/2010

Matteo 25, 14-30
14 «Poiché avverrà come a un uomo il quale, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e affidò loro i suoi beni. 15 A uno diede cinque talenti, a un altro due e a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità; e partì. 16 Subito, colui che aveva ricevuto i cinque talenti andò a farli fruttare, e ne guadagnò altri cinque. 17 Allo stesso modo, quello dei due talenti ne guadagnò altri due. 18 Ma colui che ne aveva ricevuto uno, andò a fare una buca in terra e vi nascose il denaro del suo padrone.
19 Dopo molto tempo, il padrone di quei servi ritornò a fare i conti con loro. 20 Colui che aveva ricevuto i cinque talenti venne e presentò altri cinque talenti, dicendo: "Signore, tu mi affidasti cinque talenti: ecco, ne ho guadagnati altri cinque". 21 Il suo padrone gli disse: "Va bene, servo buono e fedele; sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore".
22 Poi, si presentò anche quello dei due talenti e disse: "Signore, tu mi affidasti due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due". 23 Il suo padrone gli disse: "Va bene, servo buono e fedele, sei stato fedele in poca cosa, ti costituirò sopra molte cose; entra nella gioia del tuo Signore".
24 Poi si avvicinò anche quello che aveva ricevuto un talento solo, e disse: "Signore, io sapevo che tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; 25 ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra; eccoti il tuo". 26 Il suo padrone gli rispose: "Servo malvagio e fannullone, tu sapevi che io mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; 27 dovevi dunque portare il mio denaro dai banchieri; al mio ritorno avrei ritirato il mio con l'interesse. 28 Toglietegli dunque il talento e datelo a colui che ha i dieci talenti. 29 Poiché a chiunque ha, sarà dato ed egli sovrabbonderà; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. 30 E quel servo inutile, gettatelo nelle tenebre di fuori. Lì sarà il pianto e lo stridore dei denti".

Riflessione e silenzio



“L'aspetto più sconcertante della vostra scuola è che vive fine a se stessa. Anche il fine dei vostri ragazzi è un mistero. Forse non esiste, forse è volgare. Giorno per giorno studiano per il registro, per la pagella, per il diploma. E intanto si distraggono dalle belle cose che studiano. Lingue, storia, scienze, tutto diventa voto e null'altro. Dietro a quei fogli di carta c'è solo l'interesse individuale. Il diploma è quattrini. [...] Per studiare volentieri nelle vostre scuole bisognerebbe essere arrivisti a 12 anni."

(Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa)

La scuola è diversa dall'aula di tribunale. Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi. È l'arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (e in questo somiglia alla vostra funzione), dall'altro la volontà di leggi migliori cioè di senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione)."
(don Milani, Lettera ai giudici, 18.10.1965, in L'obbedienza non è più una virtù)




Riflessione: aggiungere due parole, soprattutto al primo brano di don Milani è necessario. La situazione della lettera alla professoressa è nota: i ragazzi della scuola di Barbiana, dopo essere stati bocciati agli esami scolastici, scrissero in questo testo famosissimo le differenze tra come si intendeva la scuola pubblica e come era la loro scuola. La Lettera è d'una bellezza sconcertante, sia perché è capace di evidenziare tutti i limiti della scuola, e nel brano riportato questi limiti sono ben evidenti, sia perché si nota la grandissima abilità delle classi più umili (i figli di contadini) di raccontarsi e di spiegare come pochi altri hanno saputo fare il motivo per cui esiste la scuola. Si va a scuola per imparare, non per essere promossi o bocciati: il voto è una conseguenza di quello che lì si è fatto. Preoccuparsi solo del voto significa, oltre a tutto, pensare solo a se stessi, non aver colto il significato profondo della scuola, che è quello di imparare assieme, di essere comunità e di aiutarsi gli uni con gli altri.
Sapere questo e ricordarselo all'interno della festa della Comunità è un passaggio decisivo per vivere diversamente la scuola, per portarvi quella differenza cristiana, per portarvi quello che riceviamo dall'essere Comunità in parrocchia. Per portare quella serenità e quella carica che non troviamo in noi stessi, ma che gratuitamente riceviamo e possiamo mettere a disposizione per gli altri.
Detto questo, forse, studiare volentieri diventa possibile, perché non si studia più solo per primeggiare sugli altri o per vincere la competizione con insegnanti distanti da noi; non prevale la rabbia per insegnamenti noiosi, ma ci si può interessare di tutte le cose. Fino a capire che a scuola, conoscendo - e sbagliando - si impara a conoscere se stessi, a crescere con gli altri e a differenziarsi dagli altri senza aver paura di non dire la propria idea, bensì esprimendola con i dovuti modi a fratelli e non ad estranei.

La riflessione è solamente iniziata... 

sabato 18 settembre 2010

Servire nella gioia - Campo a L'Aquila

Cos'è una città? Non L'Aquila. Girare per l'unica strada aperta del centro e vedere i segni del terremoto: le crepe e gli sfregi, i pali e i tiranti che sorreggono ciò che resta dei palazzi, spiare dalle vetrine gli interni pieni di macerie, non può che confermare quella risposta. Allora c'è bisogno. Allora si può andare a dare una mano. Allora si può sentire dalla Caritas per organizzare un campo di servizio con un gruppetto di ragazzi al seguito.
Si parte, quindi, con le proprie buone intenzioni e le proprie convinzioni, sperando di poter fare finalmente qualcosa di utile e di sentirsi importanti. Poi qualcosa succederà. In realtà è avvenuto molto di più.

I primi giorni sono stati duri perché pareva di essere in un mondo a parte e nel campo Caritas regnava la disorganizzazione più totale; perché avevamo abbandonato le nostre comodità e la sveglia alle 6 e la fila al bagno-container non facilitavano il risveglio; perché non conoscevamo nessuno; perché i lavori sembravano scelti a caso: non erano i più urgenti, né i più rilevanti, a occhio lo si capiva. E, soprattutto, dov'era la popolazione?
Eravamo pesci fuor d'acqua, in un ambiente diverso e in cui non sono più io a gestire l'impiego del mio tempo, ma un altro dalle dubbie qualità: capitava di stare fermi per 2 ore senza far nulla e poi dover fare una cosa senza che nessuno te ne spiegasse il perché. Eppure l'aria era buona e una certa luce di contentezza nei volontari contenti accendeva la nostra speranza; se tutti tornano a casa con la voglia di ritornare all'Aquila, un motivo ci dev'essere, basta cercarlo bene e vivere pienamente dando tutto se stessi in ciò che ci veniva chiesto.
Ci si accorgeva di come le cose, al di là di tutto, funzionassero, come se si potesse avvertire la presenza di una mano provvidenziale che aiutava e mandava avanti la baracca (nel vero senso della parola). E piano piano, nell'accorgerci che ogni responsabilità acquista valore quando guidata dallo Spirito, anche per noi il clima è cambiato.
Abbiamo smesso di notare solo la disorganizzazione, perché gestire da 15 mesi un campo che ospita fino a 500 persone alla volta in una situazione di emergenza in cui sono tantissime le cose da fare e le persone da incontrare, non è come decidere se fare i compiti al pomeriggio o restare a dormire ancora un po'. Abbiamo smesso di pensare che fosse una fatica inutile. Abbiamo iniziato ad ascoltare i racconti dei volontari fissi, cioè di coloro che sono lì dall'inizio e che ormai conoscono tutto del luogo. Ci siamo accorti che servire non è arrivare in un posto e voler porsi subito al centro dell'attenzione accentrando su di sé gli sguardi nel mostrare i propri meriti; abbiamo capito che per servire occorre mettere da parte il proprio orgoglio e predisporsi a svolgere compiti umili, spesso all'apparenza non utili e non appaganti.
Sono, in realtà, lavori che servono e che nessun altro farebbe, come spazzare l'interno di una chiesa semi-distrutta e che, per forza di cose, occorrerà pulire ancora il giorno successivo, quando migliaia di fedeli verranno in visita; come tagliare le sterpaglie nelle scuole-capannoni che hanno ricostruito dopo che delle vecchie non sono rimaste che pietre; come ripulire i vialetti dei piccoli borghi dall'erba che s'insinua tra i sanpietrini. Non sono lavori inutili, e i comuni non hanno soldi per appaltarli a qualcun altro, perché permettono di ristabilire quella quotidianità che il terremoto ha spazzato via.

E questo servire produce gioia, ce se ne accorge facilmente nei ringraziamenti degli anziani che si va ad incontrare, negli sguardi di chi capisce che non sei a L'Aquila solo per turismo, o impegno politico o per lavarti la coscienza dopo un'estate di gozzoviglie. La gioia è anche personale, non solo provocata dalla gratitudine altrui; ed è nello stare insieme durante le giornate sia svolgendo i diversi lavori, sia ritrovandosi la sera per la messa, la cena e la serata. È data dalla presenza ordinatrice di Dio che, nella preghiera, dà qualità al nostro faticare la giornata e rendendoci comunità, ci rende famiglia e ci fa essere felici in ciò che facciamo. Servire nella cornice della preghiera, infatti, «è vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze e delle perplessità; allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prende più sul serio solo se stessi, ma si vive davvero, allora si veglia con Cristo nel Getsemani»: questa è la fede e servire nella gioia a L'Aquila ci ha mostrato questa via a Gesù.
Le nostre buone intenzioni sono mutate e le nostre convinzioni si sono rivelate monche o fallaci; da come eravamo partiti torniamo a casa con un'esperienza di vita: abbiamo visto come nel servire ci sia la vita, e come possa essere una vita di gioia.

Martedì: Diamoci la carica



Martedì ore 17.30, e poi si resta lì tutta la sera...

martedì 14 settembre 2010

Appuntamenti Festa della comunità

Venerdì 17, ore 20.00 festa dell'associazione Albero di Cirene (aperitivo, cena multietnica, stand e concerto). 
Sabato 18, ore 21 spettacolo per i 25 anni della Festa della comunità...

Domenica 19, ore 11.00 S. Messa dei giovani!!! segue il pranzo tutti assieme (mi dovete confermare la presenza il prima possibile): come l'anno scorso è un bell'appuntamento e una bella occasione di passare assieme una domenica mattina. Cerchiamo di esserci. Il primo è offerto e ognuno di noi dovrà portare un secondo.

Martedì 21, ore 17.30 breve momento sulla scuola. A seguire siamo a disposizione in cucina: è la serata in cui siamo noi a cucinare, quindi dobbiamo esserci e dobbiamo ricordarci di invitare più gente possibile!!!

Giovedì 23, ore 21.00 momento di adorazione in chiesa!

Domenica 26, ore 17.30: raduno e serata delle dopo-campo. Possiamo invitare sia quanti di Bologna e dintorni che abbiamo conosciuto a L'Aquila, sia i nostri compagni dei campi degli anni passati.

La festa della comunità non è solo i nostri appuntamenti, ma tanti altri momenti che vi invito a cercare nel foglio della settimana. Vi ricordo che saranno organizzati tornei sportivi di vario genere e che ogni serata avrà una sua presentazione diversa con cena. Vi invito a partecipare anche ai momenti più riflessivi, anch'essi fanno parte del nostro essere comunità.

Ciao

giovedì 29 luglio 2010

Campo a L'Aquila

Cari ragazzi,
ci siamo!

Il campo sarà dal 24 agosto al 3 settembre.
Come sapete ci recheremo in un campo Caritas in cui, presumibilmente, saremo assieme a tantissimi altri giovani provenienti da tutta Italia. Ci verrà chiesto di svolgere diversi servizi: ogni mattina ci divideremo per andare a fare ciò che ci viene richiesto; ovviamente il campo verrà bene se riusciremo a non stare solo tra di noi, ma se ci divideremo e a coppie sapremo mescolarci con tutti gli altri.

Vi chiedo di prestare attenzione a diverse cose:
il ritrovo per la partenza è alle 11.00 all'autostazione del 24/8. Mi raccomando puntuali; andremo giù in pullman. Il ritorno sarà il 3 settembre in stazione verso le 18.30.

Tra le cose da portare non ci sono richieste particolari, salvo il modulo e il sacco a pelo. Soprattutto è necessario portarsi POCA roba: gli spazi sono pochi e non è necessario portarsi troppi vestiti. Mi raccomando, prestate particolare attenzione a questo. Inoltre è necessario portare la Bibbia, la Liturgia delle ore e un quaderno o qualche foglio. Anche la macchina fotografica è cosa gradita.

Tra quelli che sono andati nel campo a Pile è buona usanza portare vestiti da lasciare o generi di conforto (cibi in scatola, ma non pasta). Sarebbe opportuno che ognuno di noi si portasse dietro qualcosa da lasciare alla Caritas del campo, cose che verranno consegnate agli abitanti del capoluogo. Ok? (Per intenderci: va bene vestiario usato ma non troppo, escluderei biancheria intima; cibi in scatola tipo tonno o simili.)

Infine, vi chiediamo di portare altri 30 euro alla partenza da consegnarmi, perché i biglietti sono costati un pelo più del previsto e perché, restando qualche giorno in più, mi sembra ovvio lasciare un'offerta maggiore dato che avremo vitto (Giulia, sembra abbondante!!!) e alloggio.

Soprattutto è importante venire al campo con grande spirito di volontà, impegno ed attenzione verso gli altri! Come per ogni cosa siete voi a fare il campo e sarà il vostro mettervi in gioco a premiarvi con la buona riuscita di un campo che è molto particolare. L'invito è, infine, quello di avere attenzione verso le diversità che sono raccolte all'interno del campo Caritas in cui saremo e verso una popolazione che avrà senz'altro voglia di raccontare la realtà della propria esperienza; realtà che, come ci ha raccontato Martino, è molto diversa da quella della tv.

Forza e coraggio!!!
Ci vediamo il 24 mattina.

venerdì 23 luglio 2010

Il cinema sotto il tendone: Blade Runner



Ovviamente un film non è solo una scena, ma l'insieme della storia che conduce a quella scena. Questa è stra-nota!
Blade Runner è un film di fantascienza ambientato nella Los Angeles del 2019. Esempio cinematografico per eccellenza di Dystopia, citazione del film Metropolis di Fritz Lang è diventato a sua volta fonte di ispirazione per tantissime opere, sicuramente note. La trama è semplice: in un ambiente post-umano in cui si è consumato un eco-cidio di enormi dimensioni: una città di immensi e decadenti palazzoni (significativa è la pubblicità della Coca-Cola) è sotto una pioggia continua in cui flora e fauna non sono presenti se non come ricostruzioni umane; in quest'ambiente da giudizio finale assistiamo all'inseguimento di quattro replicanti da parte dello sfiduciato poliziotto Harrison Ford.

Il film non si sottrae allo scontro tra le parti, soddisfacendo i canoni del film d'azione; ma vi innesta una ricerca più profonda. Le due parti, replicanti da un lato e Deckard dall'altro, si interrogano sul senso della vita. I primi, infatti, esempio di super-uomo disumanizzato e con una breve vita a termine costruita in laboratorio, tornano sulla terra per cercare di costruirsi più vita, sommergendoci con i loro dubbi e le loro paure: il tempo non è mai bastante e la morte incombe. Ma anche gli umani paiono disumanizzati, tanto che in questo mondo dall'atmosfera tetra, le vite si confondono come lacrime nella pioggia e l'umanità si sciupa.

Purtuttavia il film non è un monito della morte, o un incentivo a sfruttare l'attimo. Vuole essere, propriamente, un'interrogazione sulla vita, sui ricordi che la compongono, sulle emozioni e sui sentimenti che le danno senso. Sul rischio di perdere la nostra umanità e sulla necessità di tenercela stretta. Sulla costruzione della vita attraverso un'empatia sentimentale di notevole intensità...

Buona visione

venerdì 16 luglio 2010

Il cinema sotto il tendone: Il sorpasso



Il Sorpasso è un film in perfetto equilibrio tra la commedia all'italiana e il dramma sociale; è l'equilibrio tra le parti in scena: tutto giocato su due protagonisti/antagonisti e sul loro duello psicologico sul filo dei 130 km/h. E' una commedia, perché tanti sono i momenti comici che si mostrano nella complessità del cialtronesco bullo Gassman, ed è divertente ridere del goffo, ma dotto Trintignant; ma è anche un dramma sociale perché la corsa in macchina, che rappresenta il progresso del boom economico dell'Italia negli anni 60, è priva di senso.
Il film stesso non ha una trama sensibile, non ha una storia da raccontare. Il regista segue con l'occhio della cinepresa le avventure inutili dei due protagonisti, conoscenti per caso nella Roma deserta di Ferragosto. E' una Dolce Vita: in cui il viaggio in macchina, ripetuto e continuato, incontra la romanità al mare, nello svago estivo, ma sempre senza meta, in un girare a vuoto che finisce nel vuoto.

Il film non è solo una critica ad un'Italia che non trova se stessa; critica che è ancora attuale. E', anche, il film sui due giovani protagonisti e sul loro approcciarsi alla vita. Non sono due macchiette, ma mostrano una complessità psicologica che è interessante e che ci riguarda e che, speriamo, ci possa far riflettere.

Commenti???

venerdì 9 luglio 2010

Il cinema sotto il tendone: Fortapasc



Fortapasc (qui, o qui) è un film su un giovane giornalista, Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra nel 1985 per aver compiuto il proprio dovere di inchiesta e denuncia. L'abbiamo scelto perché, accanto alla tragedia che certo dà significato alla storia, il film è incentrato sula vita del protagonista, con i suoi
sogni, i suoi desideri, i suoi amori, le sue fatiche. E' una vita quotidiana, simile alla nostra; vissuta in una società assediata (ecco il significato del titolo) dalla criminalità e dalla corruzione, in cui tutti i crimini rischiano di diventare quotidianità a loro volta, soffocando nei soprusi la legalità e la convivenza civile.
L'attualità del film è sconvolgente, sia perché il tema della camorra ci è ben noto dopo il libro di Saviano, sia perché la scena in cui si svolge la narrazione ricorda un fatto a noi vicino: il terremoto nell'Iripinia e la ricostruzione successiva. Il protagonista viene ucciso per aver indagato sulla commistione tra camorra e politica nella consegna degli appalti per la ricostruzione delle zone colpite dal terremoto del 1980. Inoltre è attuale per una frase sul giornalismo che ci indica come una libera informazione permetta di definire il benessere della società: questo è un paese di giornalisti impiegati, si dice con riferimento alla Campania e forse all'Italia in generale. Siani, il protagonista, non lo era.

Buona visione

mercoledì 2 giugno 2010

lunedì 31 maggio 2010

Interessante articolo

Piccolo apologo sul Paese illegale di M. Serra:

PICCOLA storia di strada - ignobile e istruttiva - come ne succedono tante. Utile per capire, al di fuori delle grandi catalogazioni teoriche, e dell'annoso dibattito politico-istituzionale sull'argomento, quanta distanza separi gli italiani dalla legge, e la legge dagli italiani. Riccione, viale Ceccarini, sabato sera. Quattro ragazzi sui diciotto anni mangiano una pizza in un ristorante e cercano di filarsela senza pagare il conto. Tre ce la fanno, uno viene bloccato dal personale del locale. Che lo gonfia di botte.

Davanti al ristorante si forma un capannello di curiosi. Lo struscio serale consente un fuori programma: il pestaggio di un cliente moroso. Il ragazzo piange, trema, è pieno di sangue, circondato da quattro o cinque giovani signori (del tipo antropologico: palestrato col codino) che gli stanno dando quella che a loro deve sembrare una lezione di vita. Tra i tanti che osservano la scena nessuno interviene. Per fortuna del ragazzo, passa in quel momento davanti al ristorante un gruppo di adulti che, nonostante sia coperto di sangue, lo riconoscono: è il compagno di scuola di un figlio. Intervengono, chiedono che cosa succede, vengono rudemente invitati dal gestore a non impicciarsi, qualche spintone, qualche insulto cerca di dissuaderli. Per fortuna si impicciano, soccorrono il ragazzo, si informano sull'accaduto. Chiedono al gestore perché, invece di pestare a sangue il ragazzo, non abbia chiamato i carabinieri. "I carabinieri non gli fanno niente, noi almeno gli abbiamo dato quello che si meritava".

Gli adulti, nel tentativo di riportare la calma e impedire conseguenze più gravi per il ragazzo, pagano il conto (sessanta euro). Dettaglio quasi esilarante, niente ricevuta fiscale: in compenso il ragazzo riceve un ultimo ceffone da parte del più agitato dei suoi improvvisati secondini. I soccorritori, che descrivono un clima di violenza isterica, fuori controllo, riescono in qualche modo a portare fuori il ragazzo, non senza essersi fatti restituire il suo cellulare, sequestrato. Lo portano a una fontana, gli lavano il sangue, gli tamponano le ferite, lo convincono di telefonare al padre, gli suggeriscono di fare denuncia. Il padre verrà
a riprenderlo. Denuncia non verrà fatta.

Il ragazzo l'ho sentito il giorno dopo. Mogio, confuso, forse conscio di avere fatto una fesseria (non pagare il conto non è una divertente bravata da movida, è un reato), sicuramente non conscio di essere stato vittima di un reato molto più grave, sequestrato, pestato, "punito" al di fuori di qualunque legge, compresa quella del buon senso. Ma chi ignora i propri doveri ignora anche i propri diritti. Di qui in poi, quel ragazzo penserà che il più grosso, o quello che corre più veloce, o il meglio accompagnato (in gruppo si mena meglio) ha sempre ragione.

La morale non è neanche una morale: è il desolato computo di una somma di comportamenti totalmente fuori dalle righe e fuori dalla legge. Nel clima eccitato della movida, non pagare il conto deve sembrare una bravata spiritosa: invece è un reato. I reati andrebbero denunciati (oppure, se si ha cervello, sanati con una mediazione privata: ragazzino, dì a tuo padre di venire subito qui a pagare il conto oppure ti denunciamo). Spaccare la faccia a un ragazzino isolato e indifeso è una porcheria in termini umani, e un reato ben più pesante che cercare di andarsene senza pagare quattro pizze. Ciliegina sulla torta, il conto incassato senza ombra di ricevuta: costume nazionale, è noto, ma che al termine di un episodio del genere suona come piccolo sfregio conclusivo. La stecca finale di un concertino disastroso.

Neanche l'ombra della legge, in tutto questo: e non in Aspromonte, ma in viale Ceccarini. Nella mezz'ora di parapiglia non si è visto un poliziotto o un vigile che cercasse di riportare l'ordine e la ragione: ma questo può essere solo uno sfortunato caso, essendo impensabile che nel cuore della più vivace e popolosa delle "movide" romagnole, con tutto l'alcol (e il resto) che gira, non sia previsto qualche presidio delle forze dell'ordine. Ma il peggio è che a nessuno dei protagonisti è balenato il sospetto che per stabilire le ragioni e i torti, per punire, per risarcire i danni, ogni via fuori dalla legge è fuorilegge. Debole o forte che sia, opaca o chiarificatrice, la legge esiste apposta per evitare che un cliente moroso possa farla franca, e che un ristoratore manesco rischi di provocargli lesioni permanenti, o peggio, per sessanta euro. E per giunta non tassati.