sabato 18 settembre 2010

Servire nella gioia - Campo a L'Aquila

Cos'è una città? Non L'Aquila. Girare per l'unica strada aperta del centro e vedere i segni del terremoto: le crepe e gli sfregi, i pali e i tiranti che sorreggono ciò che resta dei palazzi, spiare dalle vetrine gli interni pieni di macerie, non può che confermare quella risposta. Allora c'è bisogno. Allora si può andare a dare una mano. Allora si può sentire dalla Caritas per organizzare un campo di servizio con un gruppetto di ragazzi al seguito.
Si parte, quindi, con le proprie buone intenzioni e le proprie convinzioni, sperando di poter fare finalmente qualcosa di utile e di sentirsi importanti. Poi qualcosa succederà. In realtà è avvenuto molto di più.

I primi giorni sono stati duri perché pareva di essere in un mondo a parte e nel campo Caritas regnava la disorganizzazione più totale; perché avevamo abbandonato le nostre comodità e la sveglia alle 6 e la fila al bagno-container non facilitavano il risveglio; perché non conoscevamo nessuno; perché i lavori sembravano scelti a caso: non erano i più urgenti, né i più rilevanti, a occhio lo si capiva. E, soprattutto, dov'era la popolazione?
Eravamo pesci fuor d'acqua, in un ambiente diverso e in cui non sono più io a gestire l'impiego del mio tempo, ma un altro dalle dubbie qualità: capitava di stare fermi per 2 ore senza far nulla e poi dover fare una cosa senza che nessuno te ne spiegasse il perché. Eppure l'aria era buona e una certa luce di contentezza nei volontari contenti accendeva la nostra speranza; se tutti tornano a casa con la voglia di ritornare all'Aquila, un motivo ci dev'essere, basta cercarlo bene e vivere pienamente dando tutto se stessi in ciò che ci veniva chiesto.
Ci si accorgeva di come le cose, al di là di tutto, funzionassero, come se si potesse avvertire la presenza di una mano provvidenziale che aiutava e mandava avanti la baracca (nel vero senso della parola). E piano piano, nell'accorgerci che ogni responsabilità acquista valore quando guidata dallo Spirito, anche per noi il clima è cambiato.
Abbiamo smesso di notare solo la disorganizzazione, perché gestire da 15 mesi un campo che ospita fino a 500 persone alla volta in una situazione di emergenza in cui sono tantissime le cose da fare e le persone da incontrare, non è come decidere se fare i compiti al pomeriggio o restare a dormire ancora un po'. Abbiamo smesso di pensare che fosse una fatica inutile. Abbiamo iniziato ad ascoltare i racconti dei volontari fissi, cioè di coloro che sono lì dall'inizio e che ormai conoscono tutto del luogo. Ci siamo accorti che servire non è arrivare in un posto e voler porsi subito al centro dell'attenzione accentrando su di sé gli sguardi nel mostrare i propri meriti; abbiamo capito che per servire occorre mettere da parte il proprio orgoglio e predisporsi a svolgere compiti umili, spesso all'apparenza non utili e non appaganti.
Sono, in realtà, lavori che servono e che nessun altro farebbe, come spazzare l'interno di una chiesa semi-distrutta e che, per forza di cose, occorrerà pulire ancora il giorno successivo, quando migliaia di fedeli verranno in visita; come tagliare le sterpaglie nelle scuole-capannoni che hanno ricostruito dopo che delle vecchie non sono rimaste che pietre; come ripulire i vialetti dei piccoli borghi dall'erba che s'insinua tra i sanpietrini. Non sono lavori inutili, e i comuni non hanno soldi per appaltarli a qualcun altro, perché permettono di ristabilire quella quotidianità che il terremoto ha spazzato via.

E questo servire produce gioia, ce se ne accorge facilmente nei ringraziamenti degli anziani che si va ad incontrare, negli sguardi di chi capisce che non sei a L'Aquila solo per turismo, o impegno politico o per lavarti la coscienza dopo un'estate di gozzoviglie. La gioia è anche personale, non solo provocata dalla gratitudine altrui; ed è nello stare insieme durante le giornate sia svolgendo i diversi lavori, sia ritrovandosi la sera per la messa, la cena e la serata. È data dalla presenza ordinatrice di Dio che, nella preghiera, dà qualità al nostro faticare la giornata e rendendoci comunità, ci rende famiglia e ci fa essere felici in ciò che facciamo. Servire nella cornice della preghiera, infatti, «è vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze e delle perplessità; allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prende più sul serio solo se stessi, ma si vive davvero, allora si veglia con Cristo nel Getsemani»: questa è la fede e servire nella gioia a L'Aquila ci ha mostrato questa via a Gesù.
Le nostre buone intenzioni sono mutate e le nostre convinzioni si sono rivelate monche o fallaci; da come eravamo partiti torniamo a casa con un'esperienza di vita: abbiamo visto come nel servire ci sia la vita, e come possa essere una vita di gioia.

1 commento:

Tiba ha detto...

"Più tardi ho appreso, e continuo ad apprenderlo anche ora, che si impara a credere solo nel pieno essere aldiqua della vita. Quando si è completamente rinunciato a fare qualcosa id noi stessi - un santo, un peccatore pentito o un uomo di chiesa, un giusto o un ingiusto, un malato o un sano -, e questo io lo chiamo essere aldiqua, cioè vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze , delle perplessità - allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsemani, e, io credo, questa è fede, questa è metanoia, e così si diventa uomini, si diventa cristiani (cfr. Geremia 45). Perché dovremmo diventare spaaldi per i successi, o perdere la teta per gli insuccessi, quando nell'aldiqua della vita partecipiamo alla sofferenza di Dio? Tu capisci che cosa intendo dire, anche se lo dico così in poche parole. Sono riconoscente di aver avuto la possibilità di capire questo, e so che l'ho potuto capire solo percorrendo la strada che a suo tempo ho imboccato."
D. Bonhoeffer, Resistenza e Resa. Lettere e scritti dal carcere