sabato 25 settembre 2010

Servizio al campo Caritas di Pile, L'Aquila

E' difficile trarre delle conclusioni da quello che sono stati questi 11 giorni di servizio a L'Aquila: per quanto mi riguarda, sono stata là abbastanza per capire che devo ancora capire molte cose. Sono stati giorni intensi, non solo e non tanto per la fatica fisica quanto per quella psicologica: sono tornata con parecchio “materiale” su cui riflettere e con la sensazione di aver vissuto ogni singolo momento. A ognuno di noi sono rimaste impressioni a volte molto diverse tra loro e quindi mi limito a tentare di esprimere le mie, in cui so che alcuni si riconosceranno, altri meno.
Ero partita spinta prima di tutto dal desiderio di toccare con mano la situazione a distanza di più di un anno dal terremoto e non mi facevo troppe illusioni sul contributo che avrei potuto dare: convinta che l'esperienza diretta valga più di mille discorsi, volevo soprattutto immergermi in quella realtà mettendomi in gioco e in discussione, per riportarla a casa nei racconti e nei ricordi ma anche per lasciare là qualcosa di me.
Siamo stati catapultati a L'Aquila in una settimana particolare, per via della festa della Perdonanza e di tutto ciò che l'ha preceduta: la salma di Celestino V che girava per le parrocchie e che era arrivata proprio quel giorno sotto il tendone/chiesa del nostro campo, la Marcia della Pace del Sermig...perfino un concerto di Fiorella Mannoia (della quale noi ragazze siamo diventate da quel momento fan sfegatate)! Questo ha fatto sì che al campo ci fossero ritmi serrati e una certa tensione, dovuti al gran numero di lavori e spostamenti da organizzare, e l'accoglienza non è stata delle migliori, cosa che inizialmente mi ha un po' spiazzata. Oltre a questo, siccome le serate erano tutte occupate dagli eventi a cui ho accennato prima, a cui abbiamo partecipato facendo anche servizio di sicurezza, all'inizio si è sentita la mancanza di momenti di condivisione e conoscenza con gli altri abitanti del campo.
Ma a parte l'inizio burrascoso (e a parte il trauma quotidiano della sveglia alle sei), tutto il resto, in particolare durante la seconda settimana, è stato per me un motivo continuo di entusiasmo e riflessione, a partire dai lavori manuali (come pulire le aule che ospiteranno l'università o sistemare il giardino di una scuola elementare) per arrivare alle serate passate a cantare e scherzare ma anche ad ascoltare le testimonianze dei volontari in arrivo o in partenza e dei “fissi”, che sono là da mesi o da più di un anno. Alcuni di loro hanno alle spalle una storia che non sospetteresti conoscendoli adesso (chi ha una passato di tossicodipendenza, chi di vagabondaggio...); ancora una volta ho potuto constatare che spesso nel servizio si riceve più di ciò che si dà.
Una sera hanno partecipato alla serata anche i parrocchiani di Pile, che per la maggior parte sono arrivati lì dopo il terremoto; ricorderò sempre una donna che, pur avendo perso la casa, ringraziava per il dono di poter ancora guardare ogni mattina negli occhi verdi di suo figlio. Ho conosciuto persone veramente in gamba, come Sara, che ho accompagnato nei cosiddetti “giri”, durante i quali andava a visitare varie persone registrate dalla Caritas, per portare aiuti e assistenza ma spesso anche “solo” un po' di compagnia. Questa è una delle attività principali dei fissi: hanno suddiviso L'Aquila, che come Comune comprende un territorio molto esteso (Onna, per esempio, è una sua frazione), in nove zone e ognuno si occupa di una di esse, aggiornando continuamente su un quaderno l'evolversi della situazione degli assistiti. Prima del terremoto, per l'intera città dell'Aquila c'erano solo tre assistenti sociali. Per questo, subito dopo il sisma sono emerse situazioni di grosso disagio preesistenti; una delle prime iniziative della Caritas è stata quindi quella di entrare in contatto, nelle tendopoli e anche all'infuori di esse (tra coloro che erano rimasti in casa, perlopiù anziani), con queste persone, continuando a seguirle anche dopo la chiusura dei campi. Sara era al campo da più di un anno ed erano i suoi ultimi giorni lì; è stato commovente vedere l'affetto col quale tutti i suoi “assistiti” la salutavano e il rapporto che aveva creato con loro.
Nonostante i miei momenti di nervosismo, dovuto alla stanchezza, è stato fondamentale per me essere andata là con gli amici, quelli che mi conoscono da una vita e che considero la base su cui poter contare. Condividendo la fatica l'ho sentita di meno e, anzi, mi sono divertita molto e ho avuto la conferma del valore di ognuno di loro.
Ci siamo messi in gioco, quindi ci dividevamo nelle varie attività e per la maggior parte della giornata non ci vedevamo, ma è stato bello trovarsi tutti insieme a pranzo (o solo a cena, per chi era al Grest, una specie di Estate Ragazzi) con tante esperienze diverse da raccontare e con la voglia di prendere fiato in compagnia, suonando e cantando sotto il gazebo.
Ci siamo messi in gioco e abbiamo vinto insieme: devo per metà a loro la riuscita di questo campo.
L'altra metà è merito del campo in sé, della bellezza del servizio. A un certo punto del nostro giro, Sara mi ha detto una frase che mi ha colpito molto: “La gente si stupisce del fatto che stiamo qui da così' tanto, ma in realtà la cosa difficile non è rimanere, ma decidere di partire e riprendere la propria vita”. In effetti mi sono bastati undici giorni là per uscire completamente dal mio mondo e abituarmi alla vita del campo, come se fosse la normalità; non mi è difficile capire la scelta di chi ci è rimasto per così tanto. Il rientro a casa, a settembre, con l'inizio della scuola ormai incombente, i mille impegni, il rumore, la routine e la noia in agguato, non è stato facile, ho sofferto un po' di “mal d'Aquila”, di nostalgia per quelle giornate piene in cui ogni minuto era davvero speso per qualcosa di utile e bello. Spero di essermi portata un po' di quell'energia qua a Bologna. Intanto penso di aver iniziato a fare la mia parte raccontando quello che ho vissuto là e che...spero di rivivere, quando ci torneremo nelle vacanze di Natale!

La “situazione”
Quando sono tornata, in molti mi hanno chiesto della “situazione aquilana”. Vorrei poter descrivere un quadro generale, ma non ho dati sufficienti; posso però affermare con sicurezza che la realtà è molto diversa e più complessa di quello che ci hanno fatto vedere i media.
Un esempio? Le prime case del progetto C.A.S.E. (che là chiamano “le case di Berlusconi”) sono state consegnate a partire dal 29 settembre 2010 (anche se gli ultimi edifici sono stati completati il 19 febbraio, in base ai dati del sito della Protezione Civile), ma l'ultima tendopoli, quella di Piazza d'Armi, è stata chiusa definitivamente solo il 25 novembre. Degli alloggi costruiti dal Governo, dalla Protezione Civile o da donatori come le Regioni (che comprendono i MAP, cioè le casette in legno, e blocchi abitativi del progetto C.A.S.E.) hanno usufruito circa 18˙000 persone (dati tratti da “Il centro”, quotidiano locale), altre 25˙000 invece godono del contributo di autonoma sistemazione (CAS), cioè si sono arrangiate contando su un assegno governativo; i finanziamenti però sono a singhiozzo e non arrivano più da aprile (per alcuni comuni, addirittura da gennaio). Alcune migliaia di persone, tra cui molti anziani, sono ancora negli hotel sulla costa (che dista 70 km dall'Aquila).
Ma non bastano un tetto e un piatto di pasta per vivere. L'economia all'Aquila non è mai stata molto sviluppata e dal terremoto in poi è rimasta congelata; neanche le vie di comunicazione col resto d'Italia sono particolarmente agevoli. Un'importante fattore economico era costituito dall'università, che contando 30˙000 studenti (sui circa 100˙000 abitanti) creava un certo giro, ma dopo il sisma ovviamente non tutte le facoltà hanno riaperto e comunque molti se ne sono dovuti andare. Il tessuto sociale si è sfilacciato, molti sono stati costretti a trasferirsi lontano dal loro paese d'origine e dalla loro casa, mancano luoghi di ritrovo perchè il centro è chiuso (ad eccezione di una strada che lo attraversa da parte a parte e su cui sono aperti sì e no una decina di negozi, quasi tutti bar): a quanto mi hanno detto, ora il punto di riferimento giovanile è il nuovo centro commerciale “L'Aquilone”.
In centro, sulle transenne sono appesi cartelloni e foto di protesta per come è stata gestita la ricostruzione; nella piazza del duomo (l'unica aperta) c'è un tendone con su scritto “Riprendiamoci la città”, ed è lì da subito dopo il terremoto. L'iniziativa locale è stata soffocata fin dall'inizio, tutti gli interventi sono stati prerogativa della Protezione Civile, ma il centro è ancora chiuso per il 90% e i tempi della ricostruzione aumentano continuamente: ho conosciuto una signora, che vive in un garage col pavimento di terra battuta, a cui avevano promesso che la sua casa sarebbe stata pronta un anno fa.
La gente ha provato a trovare una nuova normalità, ma adesso è tornata la paura: negli ultimi mesi uno sciame sismico ha portato una nuova ondata di scosse che hanno messo tutti in allerta, tra le quali una di magnitudo 3.6 proprio quando eravamo là (ma che io non ho sentito). Il giorno dopo abbiamo fatto il giro a parlare con la gente: tutti ne parlavano, erano angosciati; il centro è stato chiuso completamente, perchè gli edifici sono solo puntellati e rischiano ancora il crollo, un paesino è stato evacuato e alcuni hanno ricominciato a dormire in macchina. Giuliani, che aveva previsto il terremoto del 2009, sostiene che c'è il rischio di un'altra forte scossa; alcuni con cui ho parlato quasi speravano che arrivasse subito: come si fa a ricostruire se tutto può crollare di nuovo?

E' difficile comprendere davvero la tragedia del terremoto, per noi che non l'abbiamo vissuto in prima persona. Ma mentre camminavo nell'unica strada aperta, fiancheggiata dalle transenne, e guardando in alto sembrava che gli edifici avessero pareti invisibili, perchè si vedeva l'interno delle stanze, con tutti gli oggetti rimasti dov'erano quella notte; mentre buttavo l'occhio aldilà della recinzione arancione flash, che delimita il vuoto lasciato da quella che era la Casa dello Studente; mentre leggevo le locandine di film usciti più di un anno fa, ho provato a immaginare come sarebbe stato se tutto questo fosse successo a Bologna, alla mia città, la città che amo.
Ho pensato che se mi fosse andata fatta bene, se i miei cari fossero tutti sopravvissuti, se la mia casa fosse rimasta in piedi, anche così avrei perso per sempre un pezzo di me e della mia vita. Mi vedo camminare per via Rizzoli, guardandomi intorno: le facciate dei palazzi sono puntellate da travetti di legno e acciaio, il fondo stradale lastricato è sollevato in più punti, come un'onda congelata; andando avanti, do un'occhiata a sinistra: piazza Nettuno è vuota, un silenzio irreale svuota lo spazio, la Salaborsa è chiusa e comunque ormai non ci sono più studenti a cui possa servire. Anche piazza Maggiore è inagibile. Provo ad avvicinarmi alle transenne e tutto quello che vedo è un cumulo di macerie; anzi no, la facciata di San Petronio è ancora in piedi... è tutto il resto della chiesa che non c'è più. Basta, basta così, fa già abbastanza male, non serve vedere altro. Tornando sui miei passi l'occhio segue la linea della strada: una strana sensazione, qualcosa non quadra. Mi blocco, ho capito: le Due Torri sono crollate, al loro posto ci sono due moncherini circondati da detriti, come due mozziconi di sigaretta spenti nelle loro stesse ceneri. Capisco quanto erano importanti tante piccole cose che davo per scontate, il sabato sera in via Zamboni, i pomeriggi passati a gironzolare nelle viuzze del centro, l'atmosfera ovattata e surreale della biblioteca; a ogni luogo erano legati dei ricordi, che adesso sono irriconoscibili sotto la polvere di cemento. I miei amici non li vedo quasi mai, molti se ne sono andati, alcuni per sempre. Non c'è più vita, non c'è futuro qui.

Questo è l'unico modo che ho trovato per sentire, anche solo per un istante, quello che dev'essere stata la quotidianità dei cittadini aquilani da quella notte. La speranza di questa città ha un tempo limitato, tutto deve ripartire in questi primi anni, prima che la gente si costruisca una nuova vita da un'altra parte. Non so, davvero, cosa possiamo fare noi, se non testimoniare quello che abbiamo visto, tenerci informati sugli sviluppi e appoggiare tutte le iniziative che possano donarle al più presto un nuovo volto, aiutando chi, nella rassegnazione generale, non ha ancora gettato la spugna.

M. Chiara

1 commento:

Tiba ha detto...

Bello, grazie...